Quel pasticciaccio brutto dei contributi all’editoria – Megachip


Quel pasticciaccio brutto dei contributi all’editoria – 28/4/08

di Marco Niro – Megachip

Ripubblichiamo
l’articolo del nostro Marco Niro che avevamo già proposto ai nostri
lettori lo scorso 22 gennaio, perché ci pare ponga in maniera corretta
la questione al centro di uno dei referendum di Grillo: quella del
finanziamento pubblico alle imprese editoriali
La
civiltà di un Paese si può valutare anche guardando ai contributi che
esso stanzia per il pluralismo della propria informazione? Se così
fosse, dovremmo avere un’opinione piuttosto bassa della civiltà
dell’Italia. Quella dei contributi all’editoria è una pratica che è
passata, negli ultimi anni, dalla oscura nebulosa che l’avvolgeva
fittamente, rendendola ignota prima ancora che incompresa, a un diffuso
sentimento pubblico di condanna dal sapore spesso qualunquistico, che
non ha d’altra parte aiutato ad aumentarne la comprensione.

Il Paese dell’Informazione

Facciamo
un esempio terra terra, per permettere a tutti di capire meglio di cosa
stiamo parlando. Immaginiamo di vivere nel Paese dell’Informazione,
dove esistono 10 imprese private che fanno informazione, 3 tv e 7
giornali. Queste 10 imprese operano in condizioni di mercato del tutto
libero, e vivono esclusivamente delle vendite: di pubblicità e, per i
giornali, delle copie.

Gli inserzionisti pubblicitari,
che guardano al portafoglio, decidono di investire tutti i loro soldi
in televisione, perché il pubblico guarda quella e legge poco. I 7
giornali protestano duramente, dicendo che così li si costringe a
chiudere, con perdita di pluralismo (e lesione del dettato
costituzionale).

Segue quindi il primo intervento del
legislatore a correggere il mercato editoriale: per legge, almeno un
quarto degli investimenti pubblicitari dovrà finire alla stampa. Ma
anche così i 7 giornali arrancano, stremati dalla concorrenza
televisiva. Cinque di loro trovano subito la soluzione: diventare
attraenti, come la televisione, o quasi. Inseguirla a colpi di
informazione spettacolarizzata, gridata, intrisa di gossip e di
gadgets. Diminuisce la qualità dell’informazione, ma aumentano i
lettori, e i bilanci tornano a quadrare, anzi diventano floridi, per la
gioia degli editori.

E gli altri 2 giornali? No, quelli
hanno deciso di non compromettere la qualità della loro informazione, e
di continuare a privilegiare l’approfondimento e l’inchiesta, per
quanto meno attraenti per il pubblico, che infatti diminuisce, e con
esso gli investimenti pubblicitari. I bilanci iniziano ad avere buchi
enormi e allora i 2 giornali decidono di farsi sentire, perché la loro
chiusura significherebbe perdita di pluralismo (e lesione del dettato
costituzionale).

Ed ecco il secondo intervento del
legislatore a correggere il mercato editoriale. I 2 giornali hanno
ragione, meritano un finanziamento pubblico. Cioè, meritano che la
collettività decida di contribuire alla loro esistenza come si
contribuisce all’esistenza del trasporto pubblico o del servizio di
approvvigionamento di acqua nelle case. In altre parole, meritano
tutela in nome della massima di Victor Hugo: “Non essere ascoltati non
è un buon motivo per tacere”.

Un bene per il pluralismo

Il
finanziamento all’editoria nasce dunque dall’esigenza di finanziare chi
decide di non trattare l’informazione come una merce al pari delle
altre, per permettere anche a tali soggetti di farsi udire. Il
finanziamento pubblico all’editoria, quindi, di per sé, non è qualcosa
di negativo. Tutt’altro. Senza di esso, rimarrebbero udibili solo le
voci di chi confeziona un’informazione attraente, dipendente dagli
imperativi del mercato, non importa se di qualità o meno.

Peccato
che interventi come quello di Milena Gabanelli, che al tema ha dedicato
una puntata di “Report” nel 2006, e di Beppe Lopez, che invece nel 2007
vi ha scritto un libro (“La casta dei giornali”, Stampa Alternativa),
nella foga di condannare l’attuale regime di finanziamento pubblico
all’editoria, abbiano finito col gettare via il bambino con l’acqua
sporca, o almeno con l’indurre gli spettatori e i lettori a farlo:
l’impressione ricavabile e ricavata dai più è stata: “è una porcheria,
meglio abolirlo”. Le loro documentate inchieste sulle storture del
sistema, infatti, non sono purtroppo state precedute da una premessa a
nostro avviso essenziale e doverosa: il finanziamento pubblico
all’editoria (se erogato correttamente) garantisce il pluralismo.

La domanda chiave non è dunque “finanziare o no l’editoria?”, ma “chi finanziare?”.

La
risposta sembrerebbe piuttosto semplice. Siccome io legislatore ti
finanzio perché tu non vuoi, per scelta, mercificare la tua
informazione, ti chiederò di rinunciare alla possibilità di ricavare
utili dalla stessa. E siccome chi non vuole fare utili con
l’informazione in genere non trova un editore disposto a stipendiarlo,
io legislatore finanzierò solo i giornali di proprietà dei giornalisti
che li scrivono, ovvero le cooperative di giornalisti (i cui soci siano
tutti giornalisti e che associno almeno la metà dei giornalisti
dipendenti). Inoltre, io legislatore mi accerterò di due cose: primo,
che i tuoi ricavi pubblicitari non superino una determinata percentuale
dei tuoi costi (bisogna infatti scegliere: o ci si fa finanziare dalla
pubblicità o dalla collettività); secondo: che tu abbia davvero un
pubblico, per quanto ristretto, perché non voglio finanziare “giornali
fantasma”, che non vengano acquistati e letti da nessuno: ovvero, mi
accerterò che almeno una parte delle copie da te stampate sia
effettivamente acquistata a un prezzo di mercato (non simbolico!):
poniamo una copia su quattro.

Tutto qui. E invece, cosa è
accaduto? Che, anziché scrivere una norma di questo genere, semplice e
stringata, il legislatore abbia prodotto, negli ultimi venticinque
anni, un coacervo di leggi, leggine, codici e codicilli –
sovrapponibili, incastrabili e scomponibili – che han reso la materia
disorganica e incomprensibile, talvolta persino agli stessi addetti ai
lavori. Questo caos ha portato con sé, in taluni casi, un allargamento
eccessivo delle maglie, che ha ammesso al finanziamento anche chi non
lo meritava, e in certi altri casi una loro assurda restrizione, che ha
tagliato fuori chi ne aveva davvero bisogno. Facciamo alcuni esempi
concreti, per capirci.

Maglie sciaguratamente larghe

Il
legislatore ha ammesso al contributo non solo le testate edite da
cooperative giornalistiche, ma anche quelle possedute a maggioranza da
cooperative, fondazioni o enti morali non aventi scopo di lucro.
Conseguenza? Possono avvalersi del contributo anche Avvenire ,
quotidiano della potente Conferenza Episcopale Italiana, che
giuridicamente è una fondazione e si “merita” 6 milioni di euro di
contributo (questa e le seguenti somme si riferiscono all’anno 2003), e
ItaliaOggi , quotidiano della ClassEditori, gruppo quotato in
Borsa, ma formalmente posseduto al 50,1% dalla coop Coitalia, che si
ingoia 5 milioni di contributo. Bisognosi? Non diremmo…

Come
non sono certo bisognosi i grandi gruppi editoriali che però incassano
pure loro ingenti contributi. La legge, infatti, li prevedeva per la
carta (fino al 2005), e li prevede per le spese telefoniche e postali.
Tali finanziamenti sono erogati “a pioggia” (si parla di contributi
indiretti): cioè, ne ha diritto chiunque, al di là di assetti societari
e bilanci. Così, il 70% dei fondi pubblici destinati all’editoria
(circa 450 milioni l’anno sui complessivi 700 erogati) se ne va nelle
casse di grandi gruppi “for profit” come “Editoriale-L’Espresso” e
“RCS”. Precisamente, oltre 23 milioni di euro vanno al Corriere della Sera , quasi 20 a Il Sole-24 Ore, oltre 16 a la Repubblica .

Il
legislatore ha poi ammesso a contributo anche i giornali di partito.
Giusto? Sbagliato? Evitiamo di addentrarci nella risposta (che
presupporrebbe un ragionamento più ampio sul finanziamento pubblico ai
partiti), limitandoci a rilevare le falle del finanziamento a questa
categoria di giornali.

Per ricevere il contributo, il
giornale di partito, oggi, deve legarsi a un gruppo parlamentare. Ma
ricordiamo che il legislatore ha dissennatamente permesso, fino
all’anno 2000, che il contributo finisse anche a quelle testate organi
di movimenti politici sostenuti anche solo da due parlamentari
italiani. Conseguenza? Si è verificata la moltiplicazione dei
“movimenti politici”, esistenti solo nella fantasia di chi ne ha
trovato i nomi, spesso davvero pittoreschi. Così, sostanziosi
contributi sono finiti a rimpinguare le casse di quotidiani come Il Foglio , organo del movimento politico “Convenzione per la Giustizia” (3,5 milioni di euro di contributo) o Libero ,
organo del “Movimento Monarchico Italiano” (oltre 5 milioni di euro).
Nel 2000, lo scandalo si chiudeva… “all’italiana”: la norma veniva
abrogata, ma le testate che avevano già ricevuto contributi in quanto
organi di movimenti politici avrebbero potuto continuare a riceverli
trasformandosi in cooperative. Tutte più o meno fasulle, e per nulla
giornalistiche, ovviamente.

Va poi rilevata la disparità
di trattamento oggi esistente tra i giornali di partito e i giornali
editi da cooperative, in relazione al requisito delle vendite. I
giornali editi dalle cooperative devono vendere almeno il 25% delle
copie stampate se testate nazionali e almeno il 40% se locali. Invece i
quotidiani di partito non sono sottoposti a questo vincolo, e
potrebbero, per assurdo, anche regalare tutte le copie che stampano. E
questo nonostante parte del contributo sia erogato proprio in base alla
tiratura! Risultato? L’Unità , giornale dei DS, vende 60.000
copie, ma ne stampa più del doppio, per arrivare ad assicurarsi oltre 6
milioni di euro di contributo. Ancora più eclatante il caso di Europa ,
giornale della Margherita, che vende poche migliaia di copie, ma ne
stampa 30.000, arrivando a incassare oltre 3 milioni di euro.

E
che dire proprio del requisito imposto alle cooperative di vendere
almeno una copia su quattro di quelle stampate? Questo vincolo oggi può
essere (e viene) aggirato allegramente: basta vendere sottocosto. Così,
ad esempio, l’Opinione delle Libertà , già organo del
“Movimento delle Libertà per le garanzie e i diritti civili”, tira
30.000 copie e, per vendere le 7.500 necessarie a papparsi il
contributo di 1 milione e 700.000 euro, le piazza sottocosto, a 10
centesimi l’una. Oppure, si esce in abbinamento a testate realmente
vendute in edicola, facendo il cosiddetto “panino”: con questo sistema,
i quotidiani locali del gruppo Ciarrapico ( Ciociaria Oggi , Latina Oggi e Oggi Nuovo Molise ), che escono in abbinamento con Il Giornale , riescono a garantirsi contributi compresi fra i 2 e i 2,5 milioni di euro.

Maglie sciaguratamente strette

Fin
qui, le critiche alle maglie larghe della legge, quelle denunciate da
Gabanelli, Lopez e molti altri in questi ultimi tempi. Ma raramente,
accanto alla critica alle maglie larghe, si è affiancata l’altrettanto
doverosa critica alle restrizioni inserite senza apparente ragione e
con grave danno proprio per chi del contributo avrebbe più bisogno.

Partiamo
dall’assurdità più grande: per ricevere il contributo, la cooperativa
giornalistica deve editare la testata da almeno 5 anni. Non si vede
quale cooperativa possa fondare un giornale e tenerlo in vita per 5
anni senza alcun sostegno, con la prospettiva di ricevere, se tutto va
bene, alla fine del settimo anno i contributi relativi al sesto anno di
vita. Questa norma non è altro che un modo per escludere dall’accesso
al contributo tutti i nuovi soggetti. E, assurdità nell’assurdità, se
cambi periodicità, riparti da zero. Ovvero, ipotizzando che un
quindicinale che già percepisca i contributi voglia diventare mensile
(anche per ridurre i costi), dovrà lasciar passare 5 anni per poterli
ricevere nuovamente. Dovrebbe invece accadere il contrario. E’ proprio
all’inizio del percorso che una cooperativa giornalistica dovrebbe
poter beneficiare del contributo più cospicuo, che poi potrebbe anche
ridursi progressivamente, una volta trascorso il periodo iniziale di 5
anni necessario al rodaggio.

Altra assurdità: per
ricevere il contributo, è necessario far certificare il bilancio da una
società di revisione iscritta all’apposito elenco della Consob. Se per
una testata nazionale questo implica una spesa relativamente bassa, per
una testata locale può comportarne una insostenibile.

Dovrebbe
esserci una differenza (che non c’è) tra il regime contributivo per le
piccole cooperative, locali, e quello per le grandi, nazionali, che
tirano più copie e fatturano di più. Questo è ancora più vero se si
pensa a un ulteriore requisito che verrebbe introdotto dalla nuova
disciplina in materia di contributi all’editoria, da mesi ferma in
Parlamento in attesa di essere approvata: si tratta dell’obbligo di
avere alle proprie dipendenze almeno 5 giornalisti se testate
quotidiane e 3 se testate periodiche. La ragione per cui si è pensato
di introdurre questo requisito è di per sé valida: si vuole evitare che
il contributo finisca a giornali di poche pagine fatti da redazioni
“inesistenti”, farcite di precari e di giornalisti prestanome. Ma è
evidente che, se per una grande testata il costo di 5 (o 3) giornalisti
non è solo sostenibile ma necessario a confezionare un buon prodotto,
per una piccola, magari locale (appunto), sarebbe insostenibile e anche
superfluo. Per evitare di finanziare le “redazioni fantasma”, sarebbe
meglio, allora fare come suggerito da Mediacoop (l’Associazione
nazionale delle cooperative editoriali), ossia variare il contributo
sulla base del numero di giornalisti dipendenti assunti dal giornale:
più ce ne sono, più sarà alto.

E che dire, infine, dell’ostacolo
rappresentato dall’esistenza degli stessi contributi indiretti di cui
beneficiano soprattutto le grandi imprese editoriali “for profit”? Si
pensi che ben 270 milioni di euro finiscono ogni anno, a pioggia, nelle
casse di oltre 7.000 testate, come contributo alle spese postali. Se,
come suggerito sempre da Mediacoop, il diritto a tale contributo
venisse concesso solo alle imprese che rinuncino alla distribuzione
degli utili, gran parte della somma potrebbe essere risparmiata, e
servire, ad esempio, a finanziare i primi 5 anni di vita di una nuova
cooperativa giornalistica, come si diceva sopra.

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LSD

A ridosso del suo 100° compleanno,
durante una passeggiata a Rittimatte,
Albert Hofmann è tornato a
ribadire quale ruolo secondo lui potrebbe
svolgere l’Lsd, il suo Bambino
difficile: «L’Lsd è già stato usato
con grossi benefici dagli anni Cinquanta
fino all’inizio degli anni Sessanta
nel campo della psicoterapia,
perché aiuta a migliorare le
condizioni del paziente infrangendo
le barriere che esistono tra paziente
e terapeuta, facilitandone il
rapporto. Aiuta a tirar fuori, a fare
emergere ilmateriale inconscio represso,
dovemagari sono sedimentate
esperienze drammatiche, su
cui è necessario intervenire per
progredire nel processo terapeutico.
Ma al di là degli aspetti medici,
le sostanze psichedeliche possono
svolgere una funzione essenziale
nella prospettiva di arrivare a un
superamento del dualismo che è
alla base della cultura materialista
ora dominante. Se non si giungerà
a questa ricomposizione non si potrà
guarire dalla malattia del materialismo,
l’uomo scisso in se stesso,
con l’altro e con il mondo. Nell’antichità
avevano questa funzione
i riti misterici, come quello di
Eleusi, dove veniva assunta una sostanza
psicoattiva, il kykeon, estratto
conmolta probabilità dall’ergot,
un parassita delle graminacee, che
sta alla base anche della sintesi dell’Lsd.
È necessaria una nuova conessione
con la natura, condizione
irrinunciabile per impedire la catastrofe
ecologica incombente. La situazione
sociale, economica, psicologica
del mondo sta diventando
talmente drammatica che la gente
sarà costretta a cambiare direzione.
Dovremo toccare il fondo affinchè
il circolo vizioso possa essere
spezzato».
Auguriamo al dr. Albert Hofmann
un buon viaggio e ci piace
immaginare che a riceverlo nell’aldilà
troverà un comitato d’accoglienza
composto da un nutrito
manipolo di «drogati» come Eraclito,
Pindaro, Euripide, Eschilo, Platone,
Aristotele, Plutarco, Cicerone,
tutti iniziati ai Misteri eleusini. (dal manifesto del primo maggio)

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Un punto di vista eclettico sulle elezioni – di Valerio Evangelisti

Azzarderò
– pur non ritenendomi per niente un esperto in politica – qualche
considerazione sulle elezioni che si sono appena svolte in Italia. I
commenti che le hanno seguite si sono incentrati su alcuni temi. Il
permanere del sex appeal di Berlusconi, la sostanziale sconfitta del
Partito Democratico di Walter Veltroni, la scomparsa del raggruppamento
“La Sinistra l’Arcobaleno” (mai denominazione fu così imbecille), il
consenso di larga parte della classe operaia alla Lega Nord.
Quest’ultimo è il solo argomento che mi interessa davvero. Mi lascia
sbalordito la strana nozione di “classe operaia” che pare aversi nel
2008. Si crede ancora che esista una compagine operaia compatta,
portatrice in teoria dei valori della sinistra? Sono almeno trent’anni
(se non quaranta) che il concetto è stato sezionato, sbugiardato, messo
a nudo nella sua incongruità. La classe operaia cui si fa riferimento
non esiste più dagli anni Settanta del Novecento.

Qui si fa sentire il peso della scomparsa di un pensiero marxista
radicale, represso quale “cattiva scuola” introduttiva al terrorismo
(come marijuana e hashish introdurrebbero, in teoria, alle “droghe
pesanti”). Si è scordato completamente il concetto marxiano di
“sussunzione reale” (del lavoro al capitale). Una fase avanzata del
capitalismo in cui il plusvalore non è più estorto nei soli luoghi di
lavoro, ma permea l’intera vita delle classi subordinate e ne domina
l’intera esistenza, non-lavoro incluso. Lungi da me l’idea di difendere
l’integralità del pensiero di Marx, che non era Nostradamus e non
poteva prevedere altro che ciò che aveva sotto gli occhi. Poteva però
estrapolare. Tra le sue estrapolazioni più felici vi fu quella che,
prima o poi, lo sfruttamento non sarebbe passato solo attraverso la
fabbrica.
Sulla scorta di questa nozione, tra gli anni Sessanta e i Settanta,
numerosi teorici “estremisti” (gli “operaisti”) si accorsero che la
classe operaia tradizionale perdeva terreno, e veniva smembrata pezzo
per pezzo. Vi fu il “decentramento produttivo”, per cui la grande
fabbrica cedeva attività a imprese minori nelle quali operai e
impiegati godevano di un numero irrisorio di diritti. Seguì l’inganno
del falso “lavoro autonomo”, in cui l’impresa stipulava con soggetti
presuntivamente indipendenti accordi di collaborazione a termine. La
caduta del Muro di Berlino e la globalizzazione permisero di impiantare
attività produttive in ogni parte del globo, purché il lavoro vi fosse
mal pagato e gli oneri fiscali vi fossero labili. Infine la
glorificazione del precariato, con la Legge Biagi e altre, consentì di
disporre di manodopera per il periodo voluto, dentro o fuori la
tradizionale officina. Ciò stava avvenendo anche con l’immigrazione
massiccia innescata dalle imposizioni del Fondo Monetario
Internazionale e della Banca Mondiale su paesi non in grado di
reggerla.
Il ricatto ai lavoratori italiani era: o accettate le condizioni che vi
offriamo, o andiamo a produrre in Croazia, in Polonia, in India, in
Cina. Oppure assumiamo al vostro posto poveracci pronti a piegarsi a
qualsiasi salario che li strappi alla fame. E voi, di lavoro, non ne
troverete mai più.
In un quadro simile, la classe operaia poteva solo contrarsi e
indebolirsi, come in effetti è accaduto. Si parla tanto dei
metalmeccanici della FIOM, ma quanti sono oggi gli operai della
categoria, rispetto a trenta anni fa? Hanno forse lo stesso grado di
“coscienza di classe”?
No, non l’hanno. Decimati, sulla difensiva, stentano a riconoscersi
persino come categoria. I sindacati che dicono di rappresentarli (e
che, crollati i partiti di riferimento, si passano la staffetta del
comando al di là di ogni procedura democratica, per investitura
diretta) sono composti per metà da pensionati reclutati a forza nei
Caaf. Hanno sopportato di tutto da chi doveva difenderli:
flessibilizzazione, decentramento, allungamento dell’orario di lavoro
attraverso l’imposizione di fatto dello straordinario, ecc. Se vogliono
ancora protestare, lo faranno contro chi è pagato ancor meno di loro
(gli immigrati), e su base territoriale, non di classe. E’ logico che
chi sta fuggendo si rifugi anzitutto in casa propria.
Il voto alla Lega Nord (peraltro ampiamente sopravvalutato) meraviglia,
a questo punto, solo gli ingenui. Ma passiamo ai restanti segmenti
delle classi subalterne.
La sinistra, quando aveva un cervello e leggeva ancora, poteva trovare
qualche indicazione sulla mappa perduta di classe in un aureo libretto
dell’americano Henry Braverman, Lavoro e capitale monopolistico,
Einaudi, Torino, 1978. Braverman, un ex operaio americano, scriveva che
la classe lavoratrice “protesta e si sottomette, si ribella o si lascia
integrare nella società borghese, si considera classe o perde coscienza
della propria esistenza, a seconda delle forze che agiscono su di essa
e degli umori, delle congiunture e dei conflitti della vita politica e
sociale. Ma poiché nella sua esistenza permanente essa è la parte viva
del capitale, la sua struttura occupazionale, i modi di lavorare e la
distribuzione nei settori industriali della società vengono determinati
dal processo di accumulazione. Essa è presa, abbandonata, gettata in
varie parti del meccanismo sociale ed espulsa da altre non in base alla
propria volontà e attività, ma secondo il movimento del capitale” (pp.
379-380).
Il proletariato, in effetti, nella sussunzione reale non è affatto
sparito, in particolare quello giovanile. Come aveva cercato di
spiegare un’ampia letteratura fin dagli anni Settanta, si trova oggi
disperso in mille forme di lavoro precario, falsamente autonomo,
falsamente intellettuale. Si salda oggettivamente ad altri lavoratori,
importati per eseguire quel tanto di lavoro manuale che è ancora
indispensabile. Perseguitati, reclusi nei CPT, condannati socialmente
perché la loro condizione non diventi mai regolare – ciò che
condurrebbe a un intollerabile aumento di costo delle loro prestazioni.
Non ne posso più di sentire portare a esempio di precariato i
“lavoratori dei call center”, come se facessero parte di una sorta di
mercato accessorio e marginale, e la loro precarietà discendesse da
quella delle loro imprese. Andrebbe capito il ruolo sociale di un “call
center”, nella sussunzione reale. Si tratta di aggiungere valore alle
merci unendovi la comunicazione e l’informazione. Un “Tonno X” è
identico a un “Tonno Y”, sugli scaffali. Ma se io faccio in modo che
“X” sia legato alla nozione stessa di tonno, il “Tonno Y” resterà
invenduto, al di là del suo valore d’uso, mentre il “Tonno X” andrà a
ruba.
Comunicazione e informazione aggiungono valore, nell’attuale assetto
del capitalismo. Ciò anche se questo non avviene in un luogo di lavoro
riconoscibile. Anzi, la sua sede è proprio esterna. Cosa che vale per
tantissime altre forme di immaterialità produttiva (altro tema
ampiamente esaminato negli anni Settanta). L’obiettivo è sussumere il
soggetto subalterno fuori dell’orario canonico di lavoro, quando si
illude che il suo tempo sia “libero”. Condizionarne fantasia,
immaginario, reazioni. Fargli produrre valore allorché si crede a
riposo. Buona parte delle attività precarie è indirizzata a questa
conquista. Antitetica alla vecchia formula socialista “Otto ore per
lavorare, otto ore per istruirsi, otto ore per riposare”. Istruirsi e
lavorare (nel senso di aggiungere valore alle merci) è diventato la
stessa cosa. Ma si potrebbe aggiungere il riposo, visto che è il
momento dei sogni, e quei sogni nascono condizionati.
Discorso astratto e visionario? Mica tanto. Negli Stati Uniti e in
buona parte dell’Occidente l’industria dello spettacolo (cinema e
soprattutto tv) e quella informatica sono oggi trainanti. Entrambe sono
“immateriali”. Invece la finanza si è completamente staccata dalle
attività concretamente produttive, e raggiunge livelli di scambio
quotidiano impressionanti, senza riferimento al valore effettivo delle
singole aziende.
In un quadro simile, in cui l’Occidente si specializza nella
valorizzazione delle merci brute provenienti da altri continenti o da
aree depresse, il proletariato bisognerebbe andarlo a cercare tra chi
sta molto in basso (gli immigrati) o chi, apparentemente collocato
meglio, ai margini della produzione diretta, in realtà contribuisce in
maniera strategica all’aggiunta di valore alle merci. Operatori dei
“call center”, certo, ma anche informatici subalterni, studenti
inseriti nella “scuola-impresa”, figure effimere che transitano da un
lavoro temporaneo a un altro, immigrati eternamente disponibili a
reperire risorse con qualsiasi mezzo (“angeli” per la sinistra,
“demoni” per la destra, quando non sono né l’una né l’altra cosa, bensì
semplicemente proletari disperati), disoccupati, insegnanti, e via
enumerando. Le nuove forme che il capitale ha modellato per la propria
autovalorizzazione. Agenti e vittime dell’estensione del potere del
sistema alle ore di non-lavoro, in cui è l’immaginario che domina, e
prefigura i comportamenti del giorno dopo. Anche le “otto ore per
riposarsi” si sono saldate, nel dominio, alle restanti sedici.
Soggetti di questo tipo o votano (in minoranza) per Berlusconi, che in
qualche modo ha capito la loro funzione, sia pure da padrone, o non
votano affatto. Come si potrebbero sentire rappresentati da una
sinistra parlamentare (parlo della sconcia “La Sinistra l’Arcobaleno”,
non del Partito Democratico, che è una sfumatura della destra) che non
ha nemmeno capito la configurazione attuale della società? Che,
suddivisa in molteplici “partiti comunisti”, è rimasta ancorata ai
canoni di tre decenni orsono? La “centralità operaia” è indiscutibile,
la FIOM (tanto antidemocratica quanto i vertici di CGIL-CISL-UIL) ne è
il cuore. Spazio marginale abbiano i Cobas, le RdB, le varie
espressioni del sindacalismo di base. I centri sociali, naturale
raggruppamento a sinistra di migliaia, o decine di migliaia, di
giovani, stiano calmi. Idem per i movimenti locali: No TAV, No Dal
Molin, decine di altri. La lotta di classe diventa lotta per le
poltrone. Bertinotti pontifica e lancia diktat: la non violenza è un
dogma inviolabile, l’adesione alla dialettica parlamentare è fatto
acquisito, le “liberalizzazioni” sono un valore da accettare
criticamente però da appoggiare, il comunismo è un’idea puramente
filosofica.
Raccoglie omaggi e consensi dagli avversari. “Che brava persona”, “Che uomo distinto”, “Con lui sì che si può ragionare”.
Peccato che l’attuale composizione di classe non lo segua. La classe
operaia che reggeva il PCI gli preferisce la Lega e la sua concretezza
territoriale. Le aree che costituiscono la composizione proletaria
presente ed egemonica non vanno nemmeno alle urne, per votare un
partito comunista qualsiasi, tra i quattro o cinque in lizza. In chi
mai dovrebbero identificarsi? Nessuno sembra capire le loro istanze e
l’attuale assetto del lavoro. Le loro posizioni sono ferme agli anni
Cinquanta. Trotzkismo? E che diavolo è oggi il trotzkismo?
Una composizione di classe nuova attende oggi risposte concrete. Ha
trascinato i burocrati fuori dal Parlamento per farli, a forza,
extraparlamentari. O troveranno una nuova vita nelle piazze, o Beppe
Grillo seguiterà a godere dei frutti di una scelta strategica giusta.
La sinistra consapevole di sé è diffusa nella marcia società italiana.
Centinaia di centri sociali, di organizzazioni locali nate su problemi
specifici, di istanze sindacali di base attendono di prendere la parola.
La si pianti di essere partitino – la falce e martello, chissenefrega –
e si sia composizione di classe. Forse, allora, si troveranno i voti
necessari, se è a questo a cui si tiene.
Altrimenti si riceveranno pernacchie. Il degno accompagnamento delle
ultime elezioni. Una composizione di classe non ha pietà. Spernacchia
ex alleati passati al nemico, “classi operaie” prossime alla pensione e
diventate razziste, forme istituzionali che non la rispettano, sindaci
che si inventano nemici per meglio abbatterli.
Che tutto ciò vada affanculo. Si vota (a volte) per dovere, ogni tanto
per piacere. E’ nella società che li si contrasta, i porconi. Qui,
nelle piazze, è atteso ciò che resta della sinistra parlamentare. O
viene in tempi utili o si farà da soli.

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Fine di un compromesso sociale – Giulietto Chiesa

di Giulietto Chiesa, Megachip – da Galatea

Metabolizzare
la batosta, davvero storica, del 13-14 aprile 2008, sarà complicato per
la sinistra, anche per quelli che hanno votato PD credendo di votare a
sinistra. “Vi ricordate quel 18 aprile?”- suonava una canzone per
ricordare altri momenti infausti (il 1948) – “d’aver votato
democristiani/ senza pensare all’indomani / a rovinare la gioventù”.

Questa
volta è andata addirittura peggio. Sparita la sinistra dal Parlamento
italiano. Sparita la sinistra in generale? Non mi pare. L’operazione è
stata una cospicua stratificazione di trucchi. Il risultato dice che
sei o sette milioni di italiani non hanno più una loro rappresentanza
in Parlamento.

Metabolizzare sarà difficile anche
perché c’è già molta gente, appunto a sinistra, e in modo particolare
tra gli inetti che hanno costruito la sconfitta con le loro mani, che
pensa di riprendersi il maltolto in tempi brevi, che anela alla
rivincita, e che sta già imboccando scorciatoie nelle quali sarà facile
graffiarsi le ginocchia, se non rompersi le gambe.

Questo
aprile epocale ha una data di nascita lontana, anzi ne ha tante che è
perfino difficile metterle tutte in fila. E’ necessario ricominciare
con fatica e fare analisi che non si facevano da una ventina d’anni.
Dal fatidico 1989, per esempio, quando cadde l’ancor più fatidico “muro
di Berlino”. Di cui, per altro, i giovani che hanno votato in questo
aprile non sanno un bel niente.

Si è rotto il
compromesso sociale che, bene o male, aveva retto gli equilibri della
società italiana dal dopoguerra. E’ il primo segnale di una rottura che
diventerà assai presto molto più grande. Sono state le classi dominanti
italiane che hanno rotto questo compromesso. E stavano provando a
imporre la loro interpretazione della modernizzazione attraverso
Veltroni e il Partito Democratico. Ma l’operazione è fallita. Gli è
scappata di mano, e dal loro cappello a cilindro è venuto fuori di
nuovo Berlusconi. E la Lega, che è componente essenziale e una delle
cose più inquietantemente interessanti tra le molte che stanno
accadendo.

Hanno rotto il compromesso perché pensavano
di poter far pagare ai lavoratori e ai ceti medi la modernizzazione,
per tenere alta la competitività e mantenere il livello altissimo di
profitti e rendite su cui hanno prosperato in questi anni. La sinistra,
divisa e in disarmo, ha offerto poca resistenza o nulla a
quell’operazione.

Anche la sinistra non aveva capito
dove stava andando la globalizzazione. Né ha capito l’11 settembre e i
suoi molteplici significati. E quindi, insieme al pacifismo, non ha
capito le ragioni della grande guerra in corso. Ha pensato – mentre è
in corso una lotta mortale per la sopravvivenza – di potersi limitare a
condurre con successo qualche ritirata tattica. Di ritirata in ritirata
si è visto che milioni di persone – la maggioranza – stavano perdendo
fette consistenti di potere d’acquisto, cioè di tenore di vita.

Le
scaramucce si sono svolte tutte “dentro” la logica del mercato, come se
il mercato fosse un campo di calcio dove si rispettano le regole.
Invece il mercato finanziario, globale e italiano, era diventato sempre
più gaglioffo e canagliesco. E ad esso si sono aggiunte due crisi,
entrambe epocali, quella energetica e quella ambientale, che avrebbero
dovuto sollevare la loro attenzione, e che sono state ignorate.

E’
stato un accavallarsi di errori. Anche le classi dominanti hanno
sbagliato. Pensavano, con ingenuità imperdonabile, che il buonismo
veltroniano potesse tenere le briglie di un cavallo a tal punto
impazzito. E pensavano che il moderato riformismo compassionevole del
PD potesse reggere un progettino di ripresa della crescita, proprio nel
momento in cui cominciava a vedersi con chiarezza che nessuna crescita
sarà più possibile. Certamente non lo sarà più nei termini e con le
modalità con cui vi è stata fino al 2001: gestione dell’esistente,
proprio nel momento in cui l’esistente diventa insopportabile.

La
sinistra avrebbe avuto margine di azione, se fosse stata capace di
proporre qualche cosa di diverso. In mancanza di una proposta
alternativa, e in presenza di un mugolio riformista indistinto e
palesemente poco credibile, ampie masse popolari – non solo e non tanto
“operaie”, ma grandi masse di individui, molto differenziate, di cui la
classe operaia è solo parte, includenti artigiani, commercianti,
piccoli imprenditori etc – sono andate a cercare protezione altrove.

Cioè
non in bocca al nemico – perché il nemico era ed è proprio chi tentava
l’operazione cosiddetta “modernizzatrice”, l’ideatore del precariato
della crescita a oltranza, dell’accelerazione dei consumi – ma da
un’altra parte. Hanno fatto la mossa del cavallo, spiazzando tutti. E
votando Berlusconi e Lega. La gente sta peggio di prima, sebbene
consumi ancora di più (ma indebitandosi), e quando comincia a essere
costretta anche a consumare di meno – esattamente l’opposto dell’unico
“valore” che le è stato inculcato – ecco che l’equilibrio si incrina.
La mandria dei consumatori non sa più dove andare. Quasi nessuno
capisce bene perché, quali sono le cause, chi sono i responsabili – il
sistema dei media glielo nasconde accuratamente e li inganna
sistematicamente – ma l’inquietudine cresce, per cento motivi, di cui
si vedono solo quelli superficiali, l’ordine pubblico, la corruzione,
la casta politica.

La giungla è bello vederla al
cinema, non viverci dentro. Il mercato, tanto magnificato tutti i
giorni dai media dei padroni del vapore, e dalle televisioni degli
stessi, è diventato ringhioso, e morde troppa gente. A chi piace la
competizione quando non sai se vincerai domani, e nemmeno se potrai mai
più vincere?

Qui ci sarebbe voluta una sinistra capace
di parlare alla gente dicendo la verità: cioè che il tipo di sviluppo
conosciuto in questi ultimi cinquant’anni non è più riproducibile
perché sono apparsi i “limiti”, e non se ne andranno più. Il picco
avviene una sola volta nella storia dell’Umanità, e finite le riserve
fossili, non ce ne sarà più.

Ma questa sinistra non c’è
più. Perché per fare questo sarebbe stata necessaria una nuova sintesi,
una nuova idea della transizione a “un’altra società umana”, non solo a
un altro sistema sociale. E per fare queste sintesi bisogna avere
organizzato lo studio, la ricerca, un livello alto dell’analisi della
complessità moderna. La sinistra si è anch’essa imbolsita nel
provincialismo ottuso della casta italiana, ed ecco che si è aperto un
baratro.

E’ avvenuta una specie di regressione
collettiva: una fuga dalla realtà, a metà strada tra l’imbambolamento
di chi chiede di poter continuare a divertirsi – a imitazione dei
ricchi, ma accettando che sia in tono minore, una specie di voyeurismo
anch’esso molto televisivo, come tutto il resto – e nello stesso tempo
si rifugia impaurito nel proprio territorio, tra le cose che conosce e
riconosce, tra i simili, tra quelli che parlano il tuo dialetto e che
fanno le stesse cose che fai tu. Anche come difesa istintiva contro gli
“alieni”, che pregano un altro dio e che ti rubano il lavoro. Anche
perché è meno alieno il tuo datore di lavoro, che ti fa fare lo
straordinario, i soldi te li da anche se ti fa lavorare come una
bestia, e poi è bene tenerselo buono perché non si sa mai con
quest’aria che tira…

Per questo hanno votato Berlusconi e Lega.

Non
modernizzazione ma regressione: un salto indietro rispetto alla
globalizzazione, che è diventata cinese e non piace più. Un salto
indietro anche rispetto all’Europa, anch’essa troppo amante della
competitività. Una fuga al quadrato, insomma. E a grande maggioranza.
Che è anch’essa la ricerca di un nuovo compromesso sociale: del tutto
subalterno e illusorio, naturalmente, ma è l’unico che hanno potuto
vedere, perché i loro occhi erano puntati sullo schermo televisivo,
dove non si può vedere, almeno in Italia, altro che quello, racchiuso
tra le tette delle soubrettes del Bagaglino.

Questo non
era quello che volevano i banchieri italiani che hanno appoggiato
Veltroni. Volevano ridurre i costi della modernizzazione, e farli
pagare ai lavoratori. Dimostrando così di essere la padella,
alternativa alla brace berlusconiana. Invece i costi della
modernizzazione aumenteranno, invece che ridursi.

Il
compromesso che loro hanno rotto la gente lo ha cercato, al ribasso,
con la regressione leghista-berlusconiana. Questo nuovo compromesso
passa attraverso la fine della democrazia, anche dal punto di vista
delle forme. Questo blocco sociale vincitore non ha un disegno che non
sia la frantumazione del paese e l’illusione – che lo distingue non di
molto da quello di Montezemolo – di poter contare sulla fortuna di una
qualche “ripresina”. E poiché le “perturbazioni sociali” della
transizione sono destinate ad aumentare, la cosa più probabile è che
ricorreranno alla forza per comprimerle. Insieme alla delimitazione di
tutti i diritti e libertà che l’attuale Costituzione ancora per poco
tutela.

Lo scenario a sinistra è ancora polveroso. Come un’esplosione vista al ralenti, quando
i frammenti e le schegge si allontanano caoticamente e lentamente gli
uni dagli altri. Poi si dovrà costruire le casematte per la difesa,
prima della tempesta.

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Sole che sorgi libero e giocondo

Inno a Roma 


Roma divina, a Te sul Campidoglio
dove eterno verdeggia il sacro alloro
a Te nostra fortezza e nostro orgoglio,
ascende il coro

Salve Dea Roma! Ti sfavilla in fronte
il Sol che nasce sulla nuova storia;
fulgida in arme, all’ultimo orizzonte
sta la Vittoria.

Sole che sorgi libero e giocondo
sul colle nostro i tuoi cavalli doma;
tu non vedrai nessuna cosa al mondo
maggior di Roma.

Per tutto il cielo è un volo di bandiere
e la pace del mondo oggi è latina:
il tricolore canta sul cantiere,
su l’officina.
Madre che doni ai popoli la legge
eterna e pura come il Sol che nasce,
benedici l’aratro antico e il gregge
folto che pasce!

Sole che sorgi libero e giocondo
sul colle nostro i tuoi cavalli doma;
tu non vedrai nessuna cosa al mondo
maggior di Roma.

Benedici il riposo e la fatica
che si rinnova per virtù d’amore,
la giovinezza florida e l’antica
età che muore.
Madre di uomini e di lanosi armenti,
d’opere schiette e di penose scuole,
tornano alle tue case i reggimenti
e sorge il sole.

Sole che sorgi libero e giocondo
sul colle nostro i tuoi cavalli doma;
tu non vedrai nessuna cosa al mondo
maggior di Roma.

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Sostanze nocive anche nei tessuti di cotone?

 
 
Vestire più sano?
Attenzione
a canotte e slip
 

Monica Di Sisto
E’ un po’ come una "seconda pelle" ma può anche trasformarsi in una tra
le più insidiose trappole per la nostra salute. Parliamo
dell’abbigliamento intimo: magliette, canotte, slip e vezzosità varie
che nascondiamo (o meno) sotto gli abiti per proteggerci, scaldarci o
tenerci più freschi. Oggi i loro tessuti contengono molte componenti
sintetiche che rendono più elastiche anche fibre di cotone molto
economiche, più convenienti ma di per sé più rigide. Esse, però, fanno
perdere a questi capi la capacità di far respirare bene la pelle e ci
possono imprigionare in una sorta di sauna permanente. Se anche ci si
volesse affidare al caro, vecchio cotone, bisogna stare con gli occhi
ben aperti perché l’etichetta "100% cotone" molte volte è stata
sbugiardata dai test di laboratorio condotti dalle associazioni dei
consumatori.
Non basta: sulle piante di cotone, che occupano circa
il 2,5% della superficie agricola mondiale, viene scaricato il 25% del
totale degli insetticidi utilizzati al mondo e 11% di tutti i
pesticidi. C’è di più: su ogni chilo di tessuto bianco sono stati
applicati ben più di un chilo tra acidi, enzimi, sbiancanti e
coloranti. Dopo tutte le fasi di lavorazione del cotone, dal campo
all’armadio, anche sugli indumenti più sensibili potrebbero essere
rimaste, a sorpresa, sostanze pericolose come formaldeide, residui di
metalli pesanti quali cromo, rame, cobalto, nichel, argento di
mercurio, ma anche pesticidi e pentaclorofenol.
Pochi immaginano, in
effetti, che l’impiego di sostanze chimiche nei processi di lavorazione
dei prodotti tessili determini effetti negativi non soltanto sulla
salute dei lavoratori del settore, che sono tra i più sfruttati e più a
rischio di intossicazione, ma anche su chi li indossa. Le Dermatiti
Allergiche da Contatto, infatti, sono in costante aumento anche nel
nostro Paese e la maggior parte dei casi è da attribuire proprio ai
coloranti utilizzati per tingere le fibre tessili.
Per salvare la
pelle è molto importante affidarsi a fibre davvero naturali, in
particolare per l’intimo, che possano contare su una coltivazione della
fibra bio ed una lavorazione che non coinvolga agenti così tanto
aggressivi. Tra le pioniere di questo settore c’è una piccola azienda
di Roma, Bio on Body, la cui linea di biancheria, pur non rinunciando a
lampi di colori e sexy baby doll in jersey, è stata addirittura
certificata dall’Associazione italiana per il biologico (Aiab) e si
trova in molti bio-shop. Chi vuole comunque trovare un’alternativa al
cotone, può provare i capi notte e intimo in morbido jersey "Ali di
Canapa", sviluppati dall’azienda italiana Ali Organic Wear e sempre
certificati da Aiab. Nella Pianura Padana la canapa è stata coltivata
per la fibra tessile fin dall’epoca romana: per sua natura, infatti, è
poco soggetta agli attacchi degli infestanti e cresce anche in terreni
non particolarmente fertili, motivo per cui ha un’ottima resa anche se
coltivata senza supporti chimici
(www.aiab.it/nuovosito/campo/marchi/tessile/aziende.shtml).
Per
chi, però, vuole fare anche la sua parte per promuovere i diritti di
chi lavora, ci sono alcune proposte interessanti nel panorama equo e
solidale. Ctm Altromercato, ad esempio, ha creato Birbanda: una linea
di intimo e abitini per bambini confezionati con cotone nativo
originario del Perù che ha la caratteristica, oltre ad essere coltivato
con i criteri del bio, di nascere già colorato sulla pianta in delicate
varietà di panna, beige, marrone, caffè e malva
(www.altromercato.it/it/prodotti/MODA).
Grazie ad una
collaborazione tra l’organizzazione equosolidale Fair, infine, è nato
il progetto di auto-impresa "Made in No": una linea di intimo e di capi
di base in cotone biologico e "Made in Dignity" co-realizzata da
piccoli artigiani tessili di Novara e dalla rete di produttori
brasiliani Justa Trama, che dice "no" allo sfruttamento del subappalto
e al ricatto delle delocalizzazioni nel Sud del mondo come a casa
nostra (www.made-in-no.com). Per vestire più sano ma anche un po’ più
giusto.

27/04/2008

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RESISTENZA OGGI. Ma prima facciamo i conti con maschilismo e omofobia.

RESISTENZA OGGI
Ma prima facciamo i conti con maschilismo e omofobia

Antifascismo: come non farla restare una parola vuota, ma viva, attuale?
Rivisitiamo criticamente la storiografia ufficiale. All’indomani della Liberazione,
ha voluto dare un’idea normalizzata della lotta contro il nazifascismo cancellando
il vero ruolo di donne, lesbiche, gay e occultando le discriminazioni che i regimi
avevano attuato nei loro confronti. Se ne parla a Verona, grazie al Circolo Pink

Elena Biagini (da Liberazione di oggi)
«Poi siamo andati a Torino. Io non ho potuto
partecipare alla sfilata, i compagni non mi hanno lasciata andare.
Nessuna partigiana garibaldina ha sfilato, ma avevano ragione loro. Mi
ricordo che strillavo: "Io vengo a ficcarmi in mezzo a voi, nel bello
della manifestazione! Voglio vedere un po’ se mi sbattete fuori!". "Tu
non vieni, se no ti pigliamo a calci in culo! La gente non sa cos’hai
fatto in mezzo a noi, e noi dobbiamo qualificarci con estrema
serietà!". E alla sfilata non ho partecipato: ero fuori ad applaudire.
Ho visto passare il mio comandante, poi ho visto Mauri, poi tutti i
distaccamenti di Mauri con le donne che avevano insieme. Loro sì che
c’erano. Mamma mia, per fortuna che non ero andata anch’io! La gente
diceva che erano delle puttane».
Questa le parole di Tersilla, nome
di battaglia Trottolina, sulla manifestazione delle brigate partigiane
che si svolsero a Torino per celebrare la liberazione nel 1945, una
delle testimonianze raccolte in La resistenza taciuta , il testo dal
titolo-manifesto che Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, pubblicarono
nel 1973, aprendo la lunga strada della de-virilizzazione
dell’antifascismo. Così inizia l’antifascismo dell’epoca repubblicana:
all’insegna del perbenismo che deve rimettere tutto a posto, riportare
le donne in casa, a fare le massaie, subordinate all’antico ordine
patriarcale, dopo che alcune di loro avevano combattuto in montagna,
molte avevano contribuito a sconfiggere "la carogna fascista" con forme
di resistenza civile, tutte erano uscite dalle mura domestiche, avevano
acquistato visibilità sociale. «La mobilità/visibilità delle donne, che
in tutta Europa passano ore davanti ai negozi e alle rivendite
clandestine, attraversano le città e percorrono le campagne in cerca di
cibo e di ricoveri di fortuna, prendono treni per sfollare, dopo
l’occupazione peregrinano tra comandi tedeschi e fascisti per conoscere
la sorte di mariti, fratelli e figli, chiedendone la liberazione», come
scrive Anna Bravo in In guerra senza armi (Roma, 1995).
Come la
nascente repubblica porta via le armi ai e alle resistenti per fermare
il processo rivoluzionario, così si assiste anche ad una forte
restaurazione dei costumi, ad una rinnovata ruolizzazione di genere
della società.
Dopo la fine della guerra, la memorialistica si è per
lo più limitata a celebrare alcune icone femminili, mentre le opere
storiografiche di sintesi, all’unisono, hanno trattato le donne come
una categoria meritevole ma indistinta ed hanno definito quello delle
partigiane un "contributo", come si trattasse di una convergenza
momentanea, non di una appartenenza vera e propria delle donne al
movimento resistenziale. La partecipazione delle donne alla Resistenza
non è stata cancellata ma svuotata del suo carattere politico, secondo
un processo che la pioniera italiana della storia delle donne Pieroni
Bortolotti sintetizza in maniera efficace nel seguente passo: «Le donne
della Resistenza erano sempre mamme e spose di casa, capaci di un
doppio lavoro, di un doppio dovere, e se non si parlava di una doppia
morte, era proprio soltanto perché al mondo si muore – perfino le donne
– una volta sola». Fino a pochi anni fa le celebrazioni ufficiali hanno
costruito una figura stereotipata della resistente, di cui è simbolo la
protagonista di L’Agnese va a morire di Renata Viganò, a discapito di
tutte quelle donne che, nella loro partecipazione politica e armata, si
sono distaccate dal modello femminile precostituito dalla ruolizzazione
di genere, dalla tradizione cattolica e patriarcale.
Non è
probabilmente un caso, in questo quadro, se le testimonianze di
resistenti lesbiche o gay sono sparute e poco conosciute: negli anni
Cinquanta il perbenismo del Pci ha certamente contribuito a far tacere
anche al proprio interno chi già nel paese doveva fare i conti con una
società fortemente normalizzata dallo Stato e dalla chiesa.
Allo
stesso modo per anni, le vittime della violenza nazi-fascista sono
state scelte: solo triangoli rossi dei prigionieri politici e le stelle
di David hanno trovato posto nelle celebrazioni ufficiali mentre sono
sempre stati trattati come secondari i triangoli verdi dei criminali
comuni, viola dei testimoni di Geova, i blu di migranti e apolidi, e
addirittura taciuti, perché imbarazzanti, i triangoli neri di asociali,
"malati di mente", mendicanti, prostitute e di lesbiche in alcuni
campi, marroni di zingari e rosa degli omosessuali.
In questo
contesto è particolarmente interessante l’esperienza del Circolo Pink
di Verona che, in un territorio vessato da rigurgiti fascisti, tensioni
razziste e violenza integralista, spinge dal 1997 fino al 2000 per
portare nelle celebrazioni ufficiali lo striscione "Uccisi dalla
barbarie, sepolti dal silenzio" che dia dignitosa visibilità a
lesbiche, omosessuali e transessuali e con loro a sinti, rom, barboni,
migranti, altri gruppi particolarmente "scomodi" nella città scaligera,
perennemente soggetta ad azioni di "pulizia" operate da giunte locali
per lo più di destra ma anche di centro sinistra.
La storiografia
accademica nel nostro Paese, ancora oggi, per lo più tace rispetto alla
misoginia come tratto connotante dell’ideologia e della repressione
fascista, anche se studi di genere importanti hanno chiarito che «la
dittatura mussoliniana costituì un episodio particolare e distinto del
dominio patriarcale. (…) Le concezioni antifemministe furono parte
integrante del credo fascista al pari del suo violento antiliberalismo,
razzismo e militarismo» (Vittoria De Grazia). Il silenzio sulle
connotazioni omofobiche del fascismo è stato rotto solo negli ultimi
anni da testi come Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità
nell’esperimento totalitario antifascista di Lorenzo Benadusi, La città
e l’isola. Omosessuali al confino nell’Italia fascista , di Giartosio e
Goretti e Fuori della norma. Storie lesbiche nell’Italia della prima
metà del novecento a cura di Milletti e Passerini. Ma se l’analisi
dell’omosessualità maschile sotto il fascismo ha raggiunto una certa
sistematicità (tanto da comparire la voce nel dizionario del fascismo),
tutt’oggi l’unico testo sulla storia delle lesbiche italiane, peraltro
non focalizzato sul fascismo, rimane il succitato Fuori della Norma .
Ma
tutto questo ovviamente non riguarda solo l’impostazione di una
corretta conoscenza storica ma condiziona e plasma l’idea che oggi
abbiamo di antifascismo, o meglio, cosa significa praticare
l’antifascismo, renderlo vivo, attuale, performante. «Parlare di
antifascismo e di antirazzismo senza valutare gli attacchi subiti dagli
orientamenti sessuali, dalle identità di genere e dalle donne, rischia
oggi di mutuare il solito atto di coscienza maschile, imbalsamato nella
commemorazione, che non intende approfondire in analisi e in capacità
di decostruzione del sistema etero-patriarcale, fascista per eccellenza
e quindi negandosi/ci la possibilità di una liberazione effettiva e a
tutto tondo», scrivono i compagni e le compagne del Pink di Verona
nell’Appello per un 25 aprile di orgoglio e resistenza
(www.circolopink.it). Il 25 aprile, già svuotato a livello
istituzionale dalla teoria dell’equidistanza, perseguita da anni da chi
oggi ha costituto il Partito democratico, ha bisogno di ritrovare una
forza propulsiva nel rifiuto di pratiche e pensieri fascisti sempre più
assimilati e quindi invisibili: il razzismo di chi sgombera campi rom o
abbatte baracche e edifici fatiscenti senza minimamente curarsi delle
persone ospitate all’interno, di chi lancia campagne contro gruppi
etnici in nome della sbandierata sicurezza, ma anche il ritorno in
grande stile della categoria del "naturale", che stigmatizza stili di
vita e soggettività non conformi, presente nelle parole dei
neofascisti, ma anche in quelle pronunciate dai pulpiti vaticani e dai
loro epigoni istituzionali o meno.

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25 Aprile sempre!

Fui affascinato soprattutto dal Che fare?, dove il partito,
diventato il centro di un grande movimento di popolo, inviava i suoi
ambasciatore in tutti gli strati della popolazione, respingeva ogni
tendenza operaistica a chiudersi in una politica “tradeunionistica” di
difesa degli interessi immediati e particolari di categoria. Mi colpì
l’affermazione di Lenin che il socialismo era l’erede e il continuatore
delle più alte tradizioni del pensiero moderno, della economia politica
inglese, della filosofia tedesca e dell’illuminismo ed utopi­smo
francese.
Non avevo letto nulla di Gramsci. I “temi” sulla
questione meridionale, pubblicati nel numero 1~ del 1930 di Stato
Operaio, giunsero a Napoli dopo che io mi ero già iscritto al partito.
Ma il riconoscimento della necessità di un’alleanza rivoluzionaria tra
classe operaia del Nord e contadini del Mezzogiorno era un tema che,
sottolineato con forza da Sereni, veniva particolarmente accolto e
compreso da chi, come me, poneva già la questione meridionale come
problema politico essenziale dell’intera nazione.
Dall’altra parte, quanto ho già raccontato sull’inesistenza di una
opposizione valida al fascismo che non fosse quella comunista, mi
confortava sulla validità della scelta che mi accingevo a fare. O
l’atesismo di Croce, il rinchiudersi nello studio nell’accettazione
pratica del regime, e quindi nella rinuncia alla lotta, o l’impotenza
rissosa degli antifascisti emigrati, perduti nelle loro vane
vociferazioni. Perché il PCI era il solo a battersi, a prezzo di tanti
sacrifici? Perché era un partito internazionalista, forte quindi del
sostegno (e della indispensabile disciplina) di un grande movimento
mondia­le. Perché gli operai, i braccianti e i contadini erano spinti,
dalla necessità di vita, a porre rivendicazioni concrete in contrasto
con i padroni e con il regime che sosteneva i padroni. Trovavo nei
fatti la conferma della validità della affermazione di Gobetti, essere
il pro-letariato l’unica classe portatrice di avvenire.
(da «Una scelta di vita», Giorgio Amendola)

La prima giornata di Torino liberata è stata ancora una giornata di lotta.
Torino non ha potuto abbandonarsi a festose manifestazioni di giubilo,
ma è restata, vigile, in armi. I partigiani e le SAP hanno continuato
la pulizia della città, rastrellando numerosi “cecchini” fascisti ed
eliminando gli ultimi disperati focolai di resistenza. Per tutto il
giorno, nel centro della città, non è cessato il crepitio delle
mitragliatrici.(…)
Il criminale Srarnek non ha ancora innalzato bandiera bianca ed ha
respinto l’intimazione di resa, che gli è stata rivolta. In altri punti
del Piemonte vi sono ancora nuclei e forze tedesche, non numerose, ma
ben armate, che tengo- no ancora e che tentano ancora di sottrarsi o di
ritardare momento della resa e dell’annientamento.(…)
La lotta continua ancora, dunque. Ma le condizioni son cambiate Le
forze nazionali sono ormai saldamente padrone della situazione. Torino
è il centro di direzione e d organizzazione del movimento di
liberazione di tutto il Pie monte. Il CLNP esercita la sua funzione di
governo coordina e dirige tutta la guerra. I tedeschi e gli ultimi
gruppi di banditi neri sono ormai nelle condizioni di fuori legge. Le
condizioni della lotta si sono ormai capovolte. I patrioti potevano,
ieri, contare sull’appoggio di tutta la popolazione ed è grazie a
questo appoggio che essi hanno vinto. nazifascisti sono ormai ridotti
nella posizione di banditi in fuga, braccati da tutte le parti, e che
bisogna abbattere senza pietà.
La mobilitazione e la salda unità di tutto il popolo sono, ancora oggi,
le condizioni essenziali per porre rapidamente e vittoriosamente
termine alle ultime operazioni. Accanto alle valorose formazioni
partigiane sono tutti i lavoratori che devono dare la caccia ai
disperati fascisti dell’ultima ora, che devono rastrellare e pulire i
quartieri, che devono consegnare ai tribunali del popolo le spie, i
provocatori, i delinquenti che devono essere giustiziati.
Pulizia pronta e radicale, è questa la condizione perché si possa
iniziare la nuova vita democratica e ci si possa accingere al duro
lavoro della ricostruzione.
Pietà l’è morta. E’ il grido che abbiamo lanciato quando più dura era
la lotta, quando i nostri migliori cadevano assassinati. E’ la parola
d’ordine del momento. I nostri morti devono essere vendicati, tutti. I
criminali devono essere eliminati. La peste fascista deve essere
annientata. Solo così potremo finalmente marciare avanti.
Con risolutezza giacobina il coltello deve essere affodato nella piaga,
tutto il marcio deve essere tagliato. Non è l’ora questa, mentre non
sono ancora sepolti i caduti della battaglia liberatrice, di
abbandonarsi ad indulgenze, che sarebbero tradimento della causa per
cui abbiamo lottato.
Pietà l’è morta.
(da «Lettere a Milano», Giorgio Amendola – L ‘Unità – 29.04.1945)

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Un mandante politico dello stupro a Roma, Stazione della Storta?

Su Dagospia, noto sito di gossip e informazione varia e avariata, è apparsa una
lettera che, se verificata e confermata nelle circostanze esposte, sarebbe
scandalosa. 

http://dagospia.excite.it/esclusivo.html


Informazione che ci allarma da far girare. Come
può un rumeno senza fissa dimora, mezz’ora dopo aver aggredito la
povera ragazza nei pressi della Stazione della Storta ad avere come
difensore l’avvocato Francesco Saverio Pettinari famoso
penalista difensore del magistrato Metta, indagato nell’ambito del
processo Lodo Mondadori che vedeva indagati Berlusconi, Pacifico,
Previti e Squillante?

Inoltre l’avvocato Pettinari risulta iscritto in gioventù all’MSI. Guarda caso uno dei soccorritori della ragazza firma con Alemanno
con tanto di foto sul Messaggero del 22 aprile 2008, il patto per la
legalità e la sicurezza. Agatha Christie faceva dire a Poirot che
quando ci sono tre coincidenze diventano un indizio.

MD

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Rassegna stampa sulla crisi Alitalia

Chi Malpensa… fa peccato ma a volte… (da il Manifesto)
Guglielmo Ragozzino
L’emergenza dei rifiuti a Napoli e il nodo dell’Alitalia sono state due carte vincenti della destra alle recenti elezioni politiche. In questo secondo caso vi era un discorso generale, sulla compagnia di bandiera che poi significa solo tenere in funzione poltrone gratis per gli alti poteri e rotte in perdita, anche copiosa, per favorire determinati rapporti internazionali. L’Alitalia, disperata, voleva abolirle o ridisegnarle. Il punto vero del dissidio era però un altro, il destino di Malpensa.
Dell’aeroporto lombardo, sempre in procinto di decollare ma il cui decollo era sempre rimandato a tempi migliori, si è parlato a fondo nella campagna elettorale. Ma non era una novità discutere di Malpensa. In passato, già con l’avvento dei jet commerciali, la pista di Milano Linate, in fondo al Viale Forlanini era considerata insufficiente. Inoltre l’area era particolarmente nebbiosa. Radar antinebbia ce n’era qualcuno, in aeroporti stranieri particolarmente tecnologici, ma era una scienza infida, strana e molto costosa. Molto meglio spostare tutto verso la limpida brughiera, verso Varese. Una bella colata di cemento, e via…
Più avanti negli anni l’esclusiva del traffico aereo tra Fiumicino e Linate diventò il punto decisivo dell’Alitalia. La compagnia si sosteneva e pagava gli extracosti da compagnia di bandiera con gli exrtraprofitti di quei voli detenuti in monopolio. Ma non poteva durare. La compagnia fu per esempio costretta a spostare voli su Malpensa, pur ritenendoli inutili.
Malpensa allora non era troppo popolare in Lombardia e in Piemonte. Forse una decina di città avevano altrettanti progetti di aeroporti alternativi. La rivalutazione dei terreni e dei paesi vicini a una possibile pista, una ricca colata di cemento, alberghi e magazzini per hub di serie B: visioni ripetute di provincia in provincia. Il caso del grande aeroporto di Orio al Serio a est di Milano, cioè dalla parte opposta di Malpensa, è ben presente a tutti. Ogni iniziativa per dare risalto all’aeroporto di tutti i lombardi era continuamente ostacolata. C’erano problemi di collegamenti, di treni, di alloggi per gli equipaggi: difficoltà vere e inventate, piccoli e grandi fastidi per affossare sempre più definitivamente l’ipotesi del mega aeroporto del nord.
A questo punto intervenne la decisione di Alitalia: salviamo la compagnia, dissero i massimi dirigenti, buttando a mare Malpensa e i suoi voli. Si decise di tagliare due terzi dei voli da e per Malpensa, soprattutto quelli intercontinentali. Per raggiungere destinazioni lontane, si sarebbe dovuto partire da Roma, oppure da Parigi. «Fate voi», disse il governo, nel massimo del suo liberismo di recente acquisizione. Air France, principale interlocutore, era d’accordo; anzi faceva capire che la chiusura di Malpensa era un passaggio indispensabile per l’affare.
La posizione di Air France era sospetta. La destra politica italiana, in sostanza la Lega, puntava il dito sullo spostamento dei traffici aerei dalla Lombardia ad altri aeroporti francesi, come Lione o Nizza o altri ancora più lontani, per raggiungere hub più comodi per la compagnia. I passeggeri calcolavano tempi di viaggio di almeno tre ore più lunghi. I politici lombardi, in rappresentanza di una parte preponderante della popolazione chiesero una moratoria: mantenete i traffici per al massimo tre anni, per consentire un avvicendamento di altre compagnie, magari low cost e mantenere in piedi (e in vita) il sistema aeroportuale. Il principale documento lombardo aggiungeva un particolare: va tenuta in considerazione «la rilevanza delle decisioni che dovranno essere assunte in merito all’assegnazione dell’Expo». Era una richiesta ragionevole, veniva da uno schieramento molto ampio in cui era ricompresa anche la Provincia di Milano, a presidenza di sinistra. Ma non fu accolta neppure questa sollecitazione a ragionare. Non ci si accorse dell’egemonia della Lega sul tema di Malpensa e dei commerci lombardi. Oramai si era deciso. Silvio Berlusconi ebbe tutto il tempo di pasticciare tra figli, cordate, Aeroflot, di turbare la trattativa, come si dice in gergo. Glielo lasciarono fare, indisturbato.
Con un vero e proprio gioco al massacro si voleva regalare centinaia di migliaia di voti alla destra.


Il voto appeso a una cordata

Galapagos
Giorgio Chinaglia, mitico bomber della Lazio, anni fa affermò che era pronto a lanciare un’Opa sulla sua ex squadra. In parecchi sentirono odore di bruciato. Intervenne la Consob e per Giorgione finì male, sommerso da una serie di accuse pesanti: aggiotaggio e turbativa dei mercati. Oggi la storia si ripete, con Alitalia, ma la Consob, ufficialmente, resta alla finestra, anche se il presidente dell’Autorità, Lamberto Cardia, lancia dalle pagine del Sole 24-ore un ultimatum: «La politica rispetti le regole del mercato». Cardia sarebbe stato molto più chiaro se avesse affermato: «Berlusconi, rispetti le regole del mercato».
Per Berlusconi il mercato è l’ultimo dei problemi. Non a caso ieri il Wall Street Journal ha scritto che «più che liberal, Berlusconi è un corporativo». Vi sembra normale l’affermazione del cavaliere che avvisa: sarà il prossimo governo, cioè io sicuro vincitore delle elezioni, a decidere sull’Alitalia. Poi ha aggiunto: nel futuro non ci sarà Air France, ma una cordata di imprenditori italiani tra i quali sarà presente mio figlio. Chi altro avrebbe potuto fare una affermazione simile, senza ritrovarsi con i carabinieri dietro l’uscio?
Ieri in borsa le azioni di Alitalia sono volate: in chiusura i titoli segnavano un guadagno di oltre il 33% e c’è chi ha guadagnato palate di soldi facendo trading sulle voci di un intervento diretto di Berlusconi nella vicenda. Non è il leader dell’attuale opposizione a pompare i mercati con un aggiotaggio senza precedenti? Che differenza c’è tra le dichiarazioni di Chinaglia e le sue?
Le difficoltà di Alitalia non nascono oggi: nel 2001 quando Berlusconi andò al governo, era già evidente che la compagnia di bandiera era sull’orlo di una crisi senza ritorno. Ma Berlusconi e Tremonti non fecero nulla per Alitalia. Anzi fecero di peggio: avallarono le ipotesi leghiste di una fusione per l’incorporazione di Alitalia in Volare, una piccola compagnia aerea del Nord. Ma Volare è fallita prima che il progetto si realizzasse. Oggi il cavaliere non trova di meglio che fare di Alitalia un tema di campagna elettorale, attaccando Prodi e Padoa Schioppa per nascondere le sue responsabilità. Anzi, la sua irresponsabilità, come ha sottolineato sempre ieri il Wall Street Journal facendo osservare che se Alitalia fosse stata privatizzata alcuni anni fa lo stato avrebbe incassato più soldi e gli esuberi sarebbero stati minori.
Alitalia ha offerto a Berlusconi lo spunto per tornare sulle prime pagine dei giornali, tagliando l’erba sotto i piedi a Veltroni. In Italia nessuno è felice di cedere Alitalia ai francesi, ma l’ipotesi dell’italianità della compagnia (avanzata da Air One con l’appoggio di Banca Intesa) purtroppo non aveva gambe per camminare. A questo punto l’unica soluzione che rimane è quella – dolorosa per i dipendenti – di una trattativa con Air France. I sindacati la stanno facendo. Berlusconi invece «gioca» sulla pelle delle lavoratori, puntando unicamente a una manciata di voti in più che il Nord potrebbe dargli, per essere stato lasciato a terra.

Vola la campagna antisindacale dell’Alitalia
Giorgio Cremaschi
Da Prodi a Padoa Schioppa, dai più importanti quotidiani al tg1, si sono tutti scatenati contro l’irrigidimento sindacale che ha fatto fuggire Air France e provocato quindi la crisi finale di Alitalia. In qualsiasi altro paese questa sarebbe una classica campagna della destra. Da noi la guidano prima di tutto i poteri economici e culturali aggregati attorno al centrosinistra. Ma veniamo alla sostanza. Dopo il fallimento bipartitico della gestione di Alitalia, si è deciso di vendere al meglio (al peggio) alla principale compagnia estera concorrente. Come sa chi conosce l’abc dei mercati e dei loro effetti sulle condizioni di lavoro, è chiaro che una vendita organizzata in questo modo consegna all’acquirente tutto il potere e lascia al venduto solo il compito di chiedere pietà. Inoltre il ministro del Tesoro ha incentivato le rigidità di Air France. Minacciando la chiusura dell’azienda se non si fossero accettate le condizioni dei francesi.
Da quel che abbiamo capito Air France non ha neppure iniziato un negoziato, ma ha riaffermato la propria impostazione chiedendo al sindacato e al governo di smussarne gli angoli con gli ammortizzatori sociali. Non c’è nulla di cui stupirsi: le multinazionali, quando comprano, all’inizio promettono mari e monti, ma poi in concreto tagliano, chiudono, licenziano. Così fa l’Electrolux, contro la quale hanno scioperato il 4 aprile tutti i dipendenti italiani, così Nokia e Thyssen, così fan tutte. Toccherebbe allora alla politica porre dei limiti, sia sul piano delle strategie industriali, sia su quelle dell’occupazione. Nulla di tutto questo c’è stato. Berlusconi ha fatto il baüscia vantando inesistenti cordate, Prodi e Padoa Schioppa hanno sostenuto i francesi e minacciato i sindacati. Ora invece si preferisce dare la colpa al corporativismo sindacale.
E’ vero che i sindacati dei trasporti sono stati spesso coinvolti in pratiche cogestionali e corporative, volute dai dirigenti aziendali sia di destra che di sinistra. E’ vero che i sindacati confederali spesso hanno rinunciato al conflitto e al consenso democratico dei lavoratori, per essere associati al potere delle aziende. Non solo in Alitalia, ma nelle Ferrovie, nelle municipalizzate (l’8 aprile a Firenze scioperano i dipendenti dell’Ataf contro un accordo che non ha il consenso né delle Rsu né dei lavoratori). E’ vero che con la concertazione e la cogestione è passata un’adesione sindacale a strategie aziendali sbagliate. Ma è paradossale che proprio questa volta che sindacati dell’Alitalia, tutti assieme, propongono alla controparte un negoziato responsabile sulle politiche industriali e sull’occupazione, costruito con il consenso dei lavoratori, sono sotto accusa. E’ questo il segnale di quanto stia precipitando a destra l’asse sociale, politico e culturale del paese. Il segno di quanto la politica fin qui seguita dal centrosinistra prepari un’accelerazione liberista tanto fuori tempo, vista la crisi economica mondiale, quanto pervicacemente acclamata. I giornali esaltano i «quadri» aziendali che si schierano con i francesi e contro il sindacato, mentre per tutti gli altri lavoratori si alimenta la paura. Ripartirà la campagna contro i privilegi di chi lavora, perché in Italia l’unico lavoratore che raccoglie attenzione e rispetto è quello che muore negli incidenti sul lavoro. Tutti gli altri sono o invisibili o corporativi. Se ogni diritto e ogni condizione di miglior favore diventano privilegio, cosa vogliono quelli dell’Alitalia? Conservare uno stipendio decente e un minimo di scurezza sul lavoro? Che imparino dai precari dei call center. Ancora il solito tg1 ha mostrato tutto contento i lavoratori licenziati da Swissair, che si sono dati da fare per trovare un’occupazione. E’ utile ricordare che la distruzione del sindacato e di tutti i diritti dei lavoratori americani cominciò nel 1980, quando Reagan licenziò in un sol colpo 18 mila controllori di volo: anche quelli erano lavoratori privilegiati. Dobbiamo percorrere allora tutti i passaggi del disastro sociale negli Usa, perché le parole di Obama divengano concrete da noi? Magari è proprio questo il disegno di Veltroni. I lavoratori di Alitalia, con le loro paure, ragioni e contraddizioni, sono soli. Sotto una campagna che fa sembrare di sinistra persino il buon senso di Cesare Romiti, che si domanda perché non si possa far continuare a lavorare l’azienda, tagliando gli sprechi ma conservando il patrimonio industriale, forzando tutte le regole del mercato come si è fatto per la Fiat. Ma oramai siamo in attesa del ritorno di Spinetta che, nuovo Carlo D’Angiò, venga a salvare l’Italia. Che classe dirigente inetta e priva di capacità e dignità. Che vergogna scaricare tutto sui lavoratori. Non sappiamo come finirà questa vertenza, ma una cosa è chiara: grazie a Prodi e a Padoa Schioppa il sindacato della concertazione, della cogestione, della collaborazione con governo e azienda è morto. Anche se non è un risultato da essi voluto, grazie a loro niente diventa più utile, serio e attuale del conflitto sociale e dell’indipendenza del sindacato dai governi, dai partiti e dalle aziende.

E’ meglio comprare Air France

Giovanni Colonna
La notizia: si cercano 8 imprenditori disposti ad investire 200 milioni ciascuno per salvaguardare l’italianità di Alitalia. Ristrutturare Alitalia non è un’ impresa impossibile, ma messa in piedi in fretta e furia sulla spinta di esigenze elettorali rischia di avere il solo effetto di distruggere altra ricchezza e rimandare il problema. Capovolgiamo la questione: con 1,6 miliardi di euro di capitale di rischio si può ottenere un prestito di 1 miliardo da quasi qualsiasi banca nel mondo e, oggi, una somma del genere (2,6 miliardi) è sufficiente a comprare sul mercato la maggioranza delle azioni Air France visto che la compagnia transalpina in borsa vale 5,2 miliardi di euro. Non è forse un investimento migliore che gettarli nella fornace Alitalia?
Nel 2007 Air france ha prodotto 656 milioni di flussi di cassa e utili netti per 891 milioni, i soli dividendi delle azioni sarebbero sufficienti a pagare gli interessi sul debito del prestito contratto; con gli stessi soldi che oggi servirebbero per salvare Alitalia un gruppo di imprenditori potrebbe ottenere il controllo di una delle principali compagnie aeree del mondo e fare un buon affare. Una operazione di capitale non ideologica. Invece ci si concentra su una battaglia sterile – l’ italianità della società – senza capire che non esistono cose italiane o cose francesi ma solo cose che funzionano e cose che non funzionano. L’Alitalia è una società che non funziona e così com’è dovrebbe fallire. Se un gruppo di imprenditori del nord comprasse veramente Air France potrebbe pensare con più calma a come sviluppare Malpensa per farne un hub europeo e a come integrare Alitalia. Ma anche da azionisti di riferimento potrebbe farlo solo se il progetto avesse senso, e il giudice del «senso» in un sistema capitalista combacia con il profitto non con l’orgoglio nazionale.
Milano può avere un aeroporto internazionale solo se il tessuto economico che ne usufruisce è capace di pagarne il prezzo. Ogni cosa funziona nella misura in cui ha senso, Altrimenti è vanità. L’ idea di una compagnia di bandiera in perdita che mantiene due Hub centripeti (Roma e Milano) quando tutto il mondo sviluppa modelli centrifughi è un vessillo d’oro che svetta su una costruzione senza fondamenta. Salvare Alitalia senza un progetto è sopra la ragione, è la sopravvivenza di un simbolo che è solo facciata; Scriveva Saint Exupéry: «L’autorità riposa, prima di tutto, sulla ragione. Se tu ordini al tuo popolo di andare a gettarsi in mare, farà la rivoluzione. Ho il diritto di esigere l’ubbidienza perché i miei ordini sono ragionevoli». Cioè possiamo ordinare al sole di tramontare, ma solo la sera verso le sette e quaranta saremo ubbiditi a puntino.
La proprietà da dei diritti sulle cose, e questo è tutto ciò che si può comprare con i soldi, ma nessuna società può prescindere dall’ accettazione del fallimento a meno di prescindere dalla democrazia; Se qualcosa non va bene deve cambiare; vogliamo un vettore italiano? Vogliamo un hub a Milano? Compriamo Air France e trattiamo alla pari con i francesi l’integrazione e il risanamento di Alitalia, e lo spazio che può ragionevolmente occupare .Più dei soldi servono coraggio umiltà e fantasia, serve l’idea dell’ impresa; quando sono al servizio di un idea i soldi si trovano quasi sempre.

«Ho la cordata, servono i soldi»

L’attivismo del cavaliere come ai tempi della Iar, quando bloccò i piani di Prodi e De Benedetti su Sme. Passera lo corregge ma non chiude. Veltroni svicola, esecutivo preoccupato: se ha delle carte le mostri subito. Entro marzo Berlusconi fa campagna elettorale con Alitalia. «Serve un prestito ponte del governo, Banca Intesa e investitori seguiranno»
Andrea Fabozzi
Roma
Al mattino Silvio Berlusconi rilancia la «cordata di imprenditori italiani» radunati intorno a Banca Intesa per contendere Alitalia ad AirFrance-Klm. Al pomeriggio il presidente di Banca Intesa Corrado Passera frena: «Non c’è nulla sul tavolo, da tre mesi non prendiamo parte ad alcuna trattativa». La borsa crede a lui e blocca la ripresa del titolo. Strana corrispondenza questa tra il cavaliere e il banchiere tradizionalmente vicino a Prodi e al centrosinistra. Berlusconi è in campagna elettorale e si atteggia a paladino dei lavoratori Alitalia (e di Malpensa), a Passera fa piacere che la partita si riapra. Probabilmente è troppo tardi: «Il piano di AirOne era molto bello ma è superato dagli eventi», ammette. Al cavaliere il presidente di Banca Intesa manda a dire che non è lui che comanda il gioco: «Non abbiamo mai investito in qualcosa perché chiamati da qualcuno, ed è per questo che abbiamo sempre fatto buoni affari». Ma uno spiraglio, piccolo, resta aperto: «Dovremmo avere maggiori informazioni, saperne di più – conclude Passera – su queste basi è inimmaginabile un’offerta». A Berlusconi basta questo per potere, a sera, assicurare che la cordata di imprenditori è in piedi – «ne farebbero parte anche i miei figli, se fosse necessario» – e che Banca Intesa non ha gettato la spugna: «Mi risulta in maniera inequivocabile che chiedono che sia data anche a loro la possibilità di una due diligence (una verifica dei conti, ndr) per conoscere la realtà aziendale».
E’ chiaro che Banca Intesa non ha intenzione di azzardare un altro passo sapendo di avere contro il governo. Ma rimasto per mesi silenzioso sul caso Alitalia, adesso che ha deciso di giocare anche questa partita in chiave elettorale Berlusconi è inarrestabile. Tanto da riprendere i colloqui con Prodi: lo chiama al mattino presto e gli assicura che l’offerta – ancora coperta – arriverà. Ma il cavaliere ha una richiesta molto pesante: un nuovo prestito ponte da parte dello stato ad Alitalia che conceda all’azienda e dunque all’ipotetica nuova cordata imprenditoriale tre-quattro mesi di tempo per riequilibrare la rotta. Prodi, al telefono con il cavaliere, chiarisce che l’Europa ha regole molto rigide per autorizzare questo genere di intervento pubblico: il prestito deve essere fatto a condizioni di mercato. E poi chi sono questi imprenditori disponibili, oltre ai Toto di AirOne (un nipote del fondatore è candidato con il Popolo delle libertà alla camera in Abruzzo), che fino ad oggi non si sono fatti avanti? Prodi sa di non poter chiudere ad ogni alternativa col rischio di presentarsi come un entusiasta del piano lacrime e sangue di AirFrance. Per questo aveva già mercoledì cercato al telefono Berlusconi per farlo uscire dal vago. Anche perché l’iniziativa del cavaliere sta ridando vita al partito dei «nazionalisti» che vedono male la cessione della compagnia di bandiera, ce ne sono anche nella maggioranza, Rutelli ad esempio. «La scadenza per nuove offerte resta il 31 marzo», chiarisce il presidente del Consiglio uscente. Il rischio altrimenti è che Alitalia si avvii al fallimento e che la colpa venga scaricata sul centrosinistra. Il ministro del tesoro Padoa Schioppa insiste: se c’è qualcuno interessato davvero ad Alitalia «si faccia avanti con atti formali e offerte concrete, altrimenti distrugge una possibilità di vendita anziché costruirne una nuova. I tempi, ormai strettissimi, non possono dipendere dal calendario politico». Cioè niente rinvio a dopo le elezioni. Il ministro però è il primo a non credere all’esistenza di alternative ad AirFrance. Era stato lui stesso a cercarle ormai molti mesi fa.
Piazzata com’è a ridosso del voto politico, la partita per Alitalia resta di grande difficoltà soprattutto per il centrosinistra già in svantaggio nei sondaggi. Veltroni se ne tiene alla larga, limitandosi a punture di spillo nei confronti degli avversari (e ieri Il Sole 24 Ore sfotteva l’ambiguità del segretario Pd). L’attivismo di Berlusconi fa paura soprattutto perché finalizzato solo a un guadagno elettorale. Una cordata fasulla, utile solo per intralciare i piani del governo: il cavaliere lo ha già fatto più di venti anni fa ed anche allora avendo Prodi dall’altra parte. Erano i tempi della Iar, il consorzio con il quale Berlusconi pretese di acquisire la Sme, l’alimentare di stato che l’Iri aveva deciso di cedere alla Cir di De Benedetti. Una vicenda che anni dopo avrebbe originato un processo per corruzione giudiziaria concluso solo nell’autunno scorso. Salvando Berlusconi e Previti, con la prescrizione.

Alitalia: non dalle nostre tasche! – 22 aprile 2008 (da http://www.lavoce.info/)

Ci risiamo. Ancora una volta la politica si è messa nel mezzo e così è saltata la trattativa con AirFrance-Klm, come otto anni fa era saltata quella con Klm. Nel frattempo la compagnia ha perso prestigio, aerei e collegamenti internazionali, con danno rilevante per lo sviluppo del  Paese. Non solo, Alitalia ha perso soldi in 14 degli ultimi 15 anni e ha succhiato (per ricapitalizzazioni) oltre 5 miliardi di euro dalle tasche dei contribuenti italiani; contribuenti che in grande maggioranza non volano. La spregiudicatezza  elettorale del prossimo Presidente del Consiglio, la cecità dei sindacati e un malinterpretato federalismo territoriale hanno spinto anche Air France a ritirarsi. Ora, con la compagnia con l’acqua alla gola e a rischio di fallimento minuto per minuto, si propone un ulteriore sacrificio, un prestito “ponte” di 100-150 milioni di euro, di nuovo sulle spalle del tartassato contribuente italiano. Un prestito oltretutto che la Commissione Europea ha già bollato come illecito aiuto di Stato. Tanto che qualcuno propone di giustificare il prestito con “ragioni di ordine pubblico”. Ma a tutto c’è un limite, quantomeno di decenza. Naturalmente, il ricco Presidente del Consiglio “in pectore” e i suoi amici sono liberissimi di offrire contributi volontari alla compagnia di bandiera, se così desiderano.  Ma il Consiglio dei Ministri ancora in carica non attinga alle nostre tasche. Perché – caduta la trattativa con Air France-Klm – il “ponte” non porta da nessuna parte in tempi brevi: alla fine del ponte sembra esserci solo il vuoto o qualche altro lungo “ponte”. Insomma, tanti altri nostri soldi buttati. Sarebbe meglio che il Governo aspettasse ancora 2 o 3 giorni e poi, se non si manifestassero prospettive serie e concrete (industriali oltre che finanziarie), lasci partire il commissariamento. Probabilmente, così si arriverà al fallimento. Sarebbe forse una lezione salutare per tutti gli sgangherati attori di questa pessima…compagnia di giro.
Andrea Boitani e Massimo Bordignon
Cordate – 19 aprile 2008

AirFrance, Aeroflot. Tutto va bene per migliorare il risultato finale della trattativa. Anche se, fuori dalle polemiche elettorali, Alitalia convolerà a giuste nozze, quasi certamente con Air France. Come ha detto Berlusconi, basta che ci sia “pari dignità – il che non significa nulla, ma aiuta perché si può sempre sostenere che finora Air France non l’avesse data, e che la sua prossima proposta (quasi identica alla prima) soddisfa invece questo requisito.
E va bene così proprio per difendere l’interesse nazionale, per avere qualcuno che ha capacità manageriale, risorse finanziarie e network capaci di rilanciare questa impresa. Questo non basterà per garantire che la nuova Alitalia sappia dare un servizio di qualità a prezzi accettabili – per questo si dovrà far funzionare la concorrenza. E largo ai vari Meridiana, AirOne, ecc., ben vengano, e chi ha pilo (competitivo) farà più tela.
E Malpensa? Non è mai stato un problema del nord. Andate a Bergamo o Brescia per sentire quanto tengono a Malpensa. Eppure i milanesi ricordano bene che l’unica ragione per cui tanti volano da Malpensa è che dieci anni fa un decreto del governo (centro sinistra) chiuse centinaia di voli da Linate, che il mercato voleva tenere lì e cheper decreto sono stati deportati a Malpensa.
Il ridimensionamento di Malpensa è un problema dell’alta Lombardia e dovrà esssere risolto come tale: un problema di sviluppo territoriale.
La lega – a suo tempo contraria all’intervento dello Stato – oggi reclama i soldi di Roma per Malpensa. Ma se diamo aiuti di Stato a una delle regioni più ricche d’Europa, quanto denaro dovremo dare alla Sicilia?
Carlo Scarpa

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