Rassegna stampa sulla crisi Alitalia

Chi Malpensa… fa peccato ma a volte… (da il Manifesto)
Guglielmo Ragozzino
L’emergenza dei rifiuti a Napoli e il nodo dell’Alitalia sono state due carte vincenti della destra alle recenti elezioni politiche. In questo secondo caso vi era un discorso generale, sulla compagnia di bandiera che poi significa solo tenere in funzione poltrone gratis per gli alti poteri e rotte in perdita, anche copiosa, per favorire determinati rapporti internazionali. L’Alitalia, disperata, voleva abolirle o ridisegnarle. Il punto vero del dissidio era però un altro, il destino di Malpensa.
Dell’aeroporto lombardo, sempre in procinto di decollare ma il cui decollo era sempre rimandato a tempi migliori, si è parlato a fondo nella campagna elettorale. Ma non era una novità discutere di Malpensa. In passato, già con l’avvento dei jet commerciali, la pista di Milano Linate, in fondo al Viale Forlanini era considerata insufficiente. Inoltre l’area era particolarmente nebbiosa. Radar antinebbia ce n’era qualcuno, in aeroporti stranieri particolarmente tecnologici, ma era una scienza infida, strana e molto costosa. Molto meglio spostare tutto verso la limpida brughiera, verso Varese. Una bella colata di cemento, e via…
Più avanti negli anni l’esclusiva del traffico aereo tra Fiumicino e Linate diventò il punto decisivo dell’Alitalia. La compagnia si sosteneva e pagava gli extracosti da compagnia di bandiera con gli exrtraprofitti di quei voli detenuti in monopolio. Ma non poteva durare. La compagnia fu per esempio costretta a spostare voli su Malpensa, pur ritenendoli inutili.
Malpensa allora non era troppo popolare in Lombardia e in Piemonte. Forse una decina di città avevano altrettanti progetti di aeroporti alternativi. La rivalutazione dei terreni e dei paesi vicini a una possibile pista, una ricca colata di cemento, alberghi e magazzini per hub di serie B: visioni ripetute di provincia in provincia. Il caso del grande aeroporto di Orio al Serio a est di Milano, cioè dalla parte opposta di Malpensa, è ben presente a tutti. Ogni iniziativa per dare risalto all’aeroporto di tutti i lombardi era continuamente ostacolata. C’erano problemi di collegamenti, di treni, di alloggi per gli equipaggi: difficoltà vere e inventate, piccoli e grandi fastidi per affossare sempre più definitivamente l’ipotesi del mega aeroporto del nord.
A questo punto intervenne la decisione di Alitalia: salviamo la compagnia, dissero i massimi dirigenti, buttando a mare Malpensa e i suoi voli. Si decise di tagliare due terzi dei voli da e per Malpensa, soprattutto quelli intercontinentali. Per raggiungere destinazioni lontane, si sarebbe dovuto partire da Roma, oppure da Parigi. «Fate voi», disse il governo, nel massimo del suo liberismo di recente acquisizione. Air France, principale interlocutore, era d’accordo; anzi faceva capire che la chiusura di Malpensa era un passaggio indispensabile per l’affare.
La posizione di Air France era sospetta. La destra politica italiana, in sostanza la Lega, puntava il dito sullo spostamento dei traffici aerei dalla Lombardia ad altri aeroporti francesi, come Lione o Nizza o altri ancora più lontani, per raggiungere hub più comodi per la compagnia. I passeggeri calcolavano tempi di viaggio di almeno tre ore più lunghi. I politici lombardi, in rappresentanza di una parte preponderante della popolazione chiesero una moratoria: mantenete i traffici per al massimo tre anni, per consentire un avvicendamento di altre compagnie, magari low cost e mantenere in piedi (e in vita) il sistema aeroportuale. Il principale documento lombardo aggiungeva un particolare: va tenuta in considerazione «la rilevanza delle decisioni che dovranno essere assunte in merito all’assegnazione dell’Expo». Era una richiesta ragionevole, veniva da uno schieramento molto ampio in cui era ricompresa anche la Provincia di Milano, a presidenza di sinistra. Ma non fu accolta neppure questa sollecitazione a ragionare. Non ci si accorse dell’egemonia della Lega sul tema di Malpensa e dei commerci lombardi. Oramai si era deciso. Silvio Berlusconi ebbe tutto il tempo di pasticciare tra figli, cordate, Aeroflot, di turbare la trattativa, come si dice in gergo. Glielo lasciarono fare, indisturbato.
Con un vero e proprio gioco al massacro si voleva regalare centinaia di migliaia di voti alla destra.


Il voto appeso a una cordata

Galapagos
Giorgio Chinaglia, mitico bomber della Lazio, anni fa affermò che era pronto a lanciare un’Opa sulla sua ex squadra. In parecchi sentirono odore di bruciato. Intervenne la Consob e per Giorgione finì male, sommerso da una serie di accuse pesanti: aggiotaggio e turbativa dei mercati. Oggi la storia si ripete, con Alitalia, ma la Consob, ufficialmente, resta alla finestra, anche se il presidente dell’Autorità, Lamberto Cardia, lancia dalle pagine del Sole 24-ore un ultimatum: «La politica rispetti le regole del mercato». Cardia sarebbe stato molto più chiaro se avesse affermato: «Berlusconi, rispetti le regole del mercato».
Per Berlusconi il mercato è l’ultimo dei problemi. Non a caso ieri il Wall Street Journal ha scritto che «più che liberal, Berlusconi è un corporativo». Vi sembra normale l’affermazione del cavaliere che avvisa: sarà il prossimo governo, cioè io sicuro vincitore delle elezioni, a decidere sull’Alitalia. Poi ha aggiunto: nel futuro non ci sarà Air France, ma una cordata di imprenditori italiani tra i quali sarà presente mio figlio. Chi altro avrebbe potuto fare una affermazione simile, senza ritrovarsi con i carabinieri dietro l’uscio?
Ieri in borsa le azioni di Alitalia sono volate: in chiusura i titoli segnavano un guadagno di oltre il 33% e c’è chi ha guadagnato palate di soldi facendo trading sulle voci di un intervento diretto di Berlusconi nella vicenda. Non è il leader dell’attuale opposizione a pompare i mercati con un aggiotaggio senza precedenti? Che differenza c’è tra le dichiarazioni di Chinaglia e le sue?
Le difficoltà di Alitalia non nascono oggi: nel 2001 quando Berlusconi andò al governo, era già evidente che la compagnia di bandiera era sull’orlo di una crisi senza ritorno. Ma Berlusconi e Tremonti non fecero nulla per Alitalia. Anzi fecero di peggio: avallarono le ipotesi leghiste di una fusione per l’incorporazione di Alitalia in Volare, una piccola compagnia aerea del Nord. Ma Volare è fallita prima che il progetto si realizzasse. Oggi il cavaliere non trova di meglio che fare di Alitalia un tema di campagna elettorale, attaccando Prodi e Padoa Schioppa per nascondere le sue responsabilità. Anzi, la sua irresponsabilità, come ha sottolineato sempre ieri il Wall Street Journal facendo osservare che se Alitalia fosse stata privatizzata alcuni anni fa lo stato avrebbe incassato più soldi e gli esuberi sarebbero stati minori.
Alitalia ha offerto a Berlusconi lo spunto per tornare sulle prime pagine dei giornali, tagliando l’erba sotto i piedi a Veltroni. In Italia nessuno è felice di cedere Alitalia ai francesi, ma l’ipotesi dell’italianità della compagnia (avanzata da Air One con l’appoggio di Banca Intesa) purtroppo non aveva gambe per camminare. A questo punto l’unica soluzione che rimane è quella – dolorosa per i dipendenti – di una trattativa con Air France. I sindacati la stanno facendo. Berlusconi invece «gioca» sulla pelle delle lavoratori, puntando unicamente a una manciata di voti in più che il Nord potrebbe dargli, per essere stato lasciato a terra.

Vola la campagna antisindacale dell’Alitalia
Giorgio Cremaschi
Da Prodi a Padoa Schioppa, dai più importanti quotidiani al tg1, si sono tutti scatenati contro l’irrigidimento sindacale che ha fatto fuggire Air France e provocato quindi la crisi finale di Alitalia. In qualsiasi altro paese questa sarebbe una classica campagna della destra. Da noi la guidano prima di tutto i poteri economici e culturali aggregati attorno al centrosinistra. Ma veniamo alla sostanza. Dopo il fallimento bipartitico della gestione di Alitalia, si è deciso di vendere al meglio (al peggio) alla principale compagnia estera concorrente. Come sa chi conosce l’abc dei mercati e dei loro effetti sulle condizioni di lavoro, è chiaro che una vendita organizzata in questo modo consegna all’acquirente tutto il potere e lascia al venduto solo il compito di chiedere pietà. Inoltre il ministro del Tesoro ha incentivato le rigidità di Air France. Minacciando la chiusura dell’azienda se non si fossero accettate le condizioni dei francesi.
Da quel che abbiamo capito Air France non ha neppure iniziato un negoziato, ma ha riaffermato la propria impostazione chiedendo al sindacato e al governo di smussarne gli angoli con gli ammortizzatori sociali. Non c’è nulla di cui stupirsi: le multinazionali, quando comprano, all’inizio promettono mari e monti, ma poi in concreto tagliano, chiudono, licenziano. Così fa l’Electrolux, contro la quale hanno scioperato il 4 aprile tutti i dipendenti italiani, così Nokia e Thyssen, così fan tutte. Toccherebbe allora alla politica porre dei limiti, sia sul piano delle strategie industriali, sia su quelle dell’occupazione. Nulla di tutto questo c’è stato. Berlusconi ha fatto il baüscia vantando inesistenti cordate, Prodi e Padoa Schioppa hanno sostenuto i francesi e minacciato i sindacati. Ora invece si preferisce dare la colpa al corporativismo sindacale.
E’ vero che i sindacati dei trasporti sono stati spesso coinvolti in pratiche cogestionali e corporative, volute dai dirigenti aziendali sia di destra che di sinistra. E’ vero che i sindacati confederali spesso hanno rinunciato al conflitto e al consenso democratico dei lavoratori, per essere associati al potere delle aziende. Non solo in Alitalia, ma nelle Ferrovie, nelle municipalizzate (l’8 aprile a Firenze scioperano i dipendenti dell’Ataf contro un accordo che non ha il consenso né delle Rsu né dei lavoratori). E’ vero che con la concertazione e la cogestione è passata un’adesione sindacale a strategie aziendali sbagliate. Ma è paradossale che proprio questa volta che sindacati dell’Alitalia, tutti assieme, propongono alla controparte un negoziato responsabile sulle politiche industriali e sull’occupazione, costruito con il consenso dei lavoratori, sono sotto accusa. E’ questo il segnale di quanto stia precipitando a destra l’asse sociale, politico e culturale del paese. Il segno di quanto la politica fin qui seguita dal centrosinistra prepari un’accelerazione liberista tanto fuori tempo, vista la crisi economica mondiale, quanto pervicacemente acclamata. I giornali esaltano i «quadri» aziendali che si schierano con i francesi e contro il sindacato, mentre per tutti gli altri lavoratori si alimenta la paura. Ripartirà la campagna contro i privilegi di chi lavora, perché in Italia l’unico lavoratore che raccoglie attenzione e rispetto è quello che muore negli incidenti sul lavoro. Tutti gli altri sono o invisibili o corporativi. Se ogni diritto e ogni condizione di miglior favore diventano privilegio, cosa vogliono quelli dell’Alitalia? Conservare uno stipendio decente e un minimo di scurezza sul lavoro? Che imparino dai precari dei call center. Ancora il solito tg1 ha mostrato tutto contento i lavoratori licenziati da Swissair, che si sono dati da fare per trovare un’occupazione. E’ utile ricordare che la distruzione del sindacato e di tutti i diritti dei lavoratori americani cominciò nel 1980, quando Reagan licenziò in un sol colpo 18 mila controllori di volo: anche quelli erano lavoratori privilegiati. Dobbiamo percorrere allora tutti i passaggi del disastro sociale negli Usa, perché le parole di Obama divengano concrete da noi? Magari è proprio questo il disegno di Veltroni. I lavoratori di Alitalia, con le loro paure, ragioni e contraddizioni, sono soli. Sotto una campagna che fa sembrare di sinistra persino il buon senso di Cesare Romiti, che si domanda perché non si possa far continuare a lavorare l’azienda, tagliando gli sprechi ma conservando il patrimonio industriale, forzando tutte le regole del mercato come si è fatto per la Fiat. Ma oramai siamo in attesa del ritorno di Spinetta che, nuovo Carlo D’Angiò, venga a salvare l’Italia. Che classe dirigente inetta e priva di capacità e dignità. Che vergogna scaricare tutto sui lavoratori. Non sappiamo come finirà questa vertenza, ma una cosa è chiara: grazie a Prodi e a Padoa Schioppa il sindacato della concertazione, della cogestione, della collaborazione con governo e azienda è morto. Anche se non è un risultato da essi voluto, grazie a loro niente diventa più utile, serio e attuale del conflitto sociale e dell’indipendenza del sindacato dai governi, dai partiti e dalle aziende.

E’ meglio comprare Air France

Giovanni Colonna
La notizia: si cercano 8 imprenditori disposti ad investire 200 milioni ciascuno per salvaguardare l’italianità di Alitalia. Ristrutturare Alitalia non è un’ impresa impossibile, ma messa in piedi in fretta e furia sulla spinta di esigenze elettorali rischia di avere il solo effetto di distruggere altra ricchezza e rimandare il problema. Capovolgiamo la questione: con 1,6 miliardi di euro di capitale di rischio si può ottenere un prestito di 1 miliardo da quasi qualsiasi banca nel mondo e, oggi, una somma del genere (2,6 miliardi) è sufficiente a comprare sul mercato la maggioranza delle azioni Air France visto che la compagnia transalpina in borsa vale 5,2 miliardi di euro. Non è forse un investimento migliore che gettarli nella fornace Alitalia?
Nel 2007 Air france ha prodotto 656 milioni di flussi di cassa e utili netti per 891 milioni, i soli dividendi delle azioni sarebbero sufficienti a pagare gli interessi sul debito del prestito contratto; con gli stessi soldi che oggi servirebbero per salvare Alitalia un gruppo di imprenditori potrebbe ottenere il controllo di una delle principali compagnie aeree del mondo e fare un buon affare. Una operazione di capitale non ideologica. Invece ci si concentra su una battaglia sterile – l’ italianità della società – senza capire che non esistono cose italiane o cose francesi ma solo cose che funzionano e cose che non funzionano. L’Alitalia è una società che non funziona e così com’è dovrebbe fallire. Se un gruppo di imprenditori del nord comprasse veramente Air France potrebbe pensare con più calma a come sviluppare Malpensa per farne un hub europeo e a come integrare Alitalia. Ma anche da azionisti di riferimento potrebbe farlo solo se il progetto avesse senso, e il giudice del «senso» in un sistema capitalista combacia con il profitto non con l’orgoglio nazionale.
Milano può avere un aeroporto internazionale solo se il tessuto economico che ne usufruisce è capace di pagarne il prezzo. Ogni cosa funziona nella misura in cui ha senso, Altrimenti è vanità. L’ idea di una compagnia di bandiera in perdita che mantiene due Hub centripeti (Roma e Milano) quando tutto il mondo sviluppa modelli centrifughi è un vessillo d’oro che svetta su una costruzione senza fondamenta. Salvare Alitalia senza un progetto è sopra la ragione, è la sopravvivenza di un simbolo che è solo facciata; Scriveva Saint Exupéry: «L’autorità riposa, prima di tutto, sulla ragione. Se tu ordini al tuo popolo di andare a gettarsi in mare, farà la rivoluzione. Ho il diritto di esigere l’ubbidienza perché i miei ordini sono ragionevoli». Cioè possiamo ordinare al sole di tramontare, ma solo la sera verso le sette e quaranta saremo ubbiditi a puntino.
La proprietà da dei diritti sulle cose, e questo è tutto ciò che si può comprare con i soldi, ma nessuna società può prescindere dall’ accettazione del fallimento a meno di prescindere dalla democrazia; Se qualcosa non va bene deve cambiare; vogliamo un vettore italiano? Vogliamo un hub a Milano? Compriamo Air France e trattiamo alla pari con i francesi l’integrazione e il risanamento di Alitalia, e lo spazio che può ragionevolmente occupare .Più dei soldi servono coraggio umiltà e fantasia, serve l’idea dell’ impresa; quando sono al servizio di un idea i soldi si trovano quasi sempre.

«Ho la cordata, servono i soldi»

L’attivismo del cavaliere come ai tempi della Iar, quando bloccò i piani di Prodi e De Benedetti su Sme. Passera lo corregge ma non chiude. Veltroni svicola, esecutivo preoccupato: se ha delle carte le mostri subito. Entro marzo Berlusconi fa campagna elettorale con Alitalia. «Serve un prestito ponte del governo, Banca Intesa e investitori seguiranno»
Andrea Fabozzi
Roma
Al mattino Silvio Berlusconi rilancia la «cordata di imprenditori italiani» radunati intorno a Banca Intesa per contendere Alitalia ad AirFrance-Klm. Al pomeriggio il presidente di Banca Intesa Corrado Passera frena: «Non c’è nulla sul tavolo, da tre mesi non prendiamo parte ad alcuna trattativa». La borsa crede a lui e blocca la ripresa del titolo. Strana corrispondenza questa tra il cavaliere e il banchiere tradizionalmente vicino a Prodi e al centrosinistra. Berlusconi è in campagna elettorale e si atteggia a paladino dei lavoratori Alitalia (e di Malpensa), a Passera fa piacere che la partita si riapra. Probabilmente è troppo tardi: «Il piano di AirOne era molto bello ma è superato dagli eventi», ammette. Al cavaliere il presidente di Banca Intesa manda a dire che non è lui che comanda il gioco: «Non abbiamo mai investito in qualcosa perché chiamati da qualcuno, ed è per questo che abbiamo sempre fatto buoni affari». Ma uno spiraglio, piccolo, resta aperto: «Dovremmo avere maggiori informazioni, saperne di più – conclude Passera – su queste basi è inimmaginabile un’offerta». A Berlusconi basta questo per potere, a sera, assicurare che la cordata di imprenditori è in piedi – «ne farebbero parte anche i miei figli, se fosse necessario» – e che Banca Intesa non ha gettato la spugna: «Mi risulta in maniera inequivocabile che chiedono che sia data anche a loro la possibilità di una due diligence (una verifica dei conti, ndr) per conoscere la realtà aziendale».
E’ chiaro che Banca Intesa non ha intenzione di azzardare un altro passo sapendo di avere contro il governo. Ma rimasto per mesi silenzioso sul caso Alitalia, adesso che ha deciso di giocare anche questa partita in chiave elettorale Berlusconi è inarrestabile. Tanto da riprendere i colloqui con Prodi: lo chiama al mattino presto e gli assicura che l’offerta – ancora coperta – arriverà. Ma il cavaliere ha una richiesta molto pesante: un nuovo prestito ponte da parte dello stato ad Alitalia che conceda all’azienda e dunque all’ipotetica nuova cordata imprenditoriale tre-quattro mesi di tempo per riequilibrare la rotta. Prodi, al telefono con il cavaliere, chiarisce che l’Europa ha regole molto rigide per autorizzare questo genere di intervento pubblico: il prestito deve essere fatto a condizioni di mercato. E poi chi sono questi imprenditori disponibili, oltre ai Toto di AirOne (un nipote del fondatore è candidato con il Popolo delle libertà alla camera in Abruzzo), che fino ad oggi non si sono fatti avanti? Prodi sa di non poter chiudere ad ogni alternativa col rischio di presentarsi come un entusiasta del piano lacrime e sangue di AirFrance. Per questo aveva già mercoledì cercato al telefono Berlusconi per farlo uscire dal vago. Anche perché l’iniziativa del cavaliere sta ridando vita al partito dei «nazionalisti» che vedono male la cessione della compagnia di bandiera, ce ne sono anche nella maggioranza, Rutelli ad esempio. «La scadenza per nuove offerte resta il 31 marzo», chiarisce il presidente del Consiglio uscente. Il rischio altrimenti è che Alitalia si avvii al fallimento e che la colpa venga scaricata sul centrosinistra. Il ministro del tesoro Padoa Schioppa insiste: se c’è qualcuno interessato davvero ad Alitalia «si faccia avanti con atti formali e offerte concrete, altrimenti distrugge una possibilità di vendita anziché costruirne una nuova. I tempi, ormai strettissimi, non possono dipendere dal calendario politico». Cioè niente rinvio a dopo le elezioni. Il ministro però è il primo a non credere all’esistenza di alternative ad AirFrance. Era stato lui stesso a cercarle ormai molti mesi fa.
Piazzata com’è a ridosso del voto politico, la partita per Alitalia resta di grande difficoltà soprattutto per il centrosinistra già in svantaggio nei sondaggi. Veltroni se ne tiene alla larga, limitandosi a punture di spillo nei confronti degli avversari (e ieri Il Sole 24 Ore sfotteva l’ambiguità del segretario Pd). L’attivismo di Berlusconi fa paura soprattutto perché finalizzato solo a un guadagno elettorale. Una cordata fasulla, utile solo per intralciare i piani del governo: il cavaliere lo ha già fatto più di venti anni fa ed anche allora avendo Prodi dall’altra parte. Erano i tempi della Iar, il consorzio con il quale Berlusconi pretese di acquisire la Sme, l’alimentare di stato che l’Iri aveva deciso di cedere alla Cir di De Benedetti. Una vicenda che anni dopo avrebbe originato un processo per corruzione giudiziaria concluso solo nell’autunno scorso. Salvando Berlusconi e Previti, con la prescrizione.

Alitalia: non dalle nostre tasche! – 22 aprile 2008 (da http://www.lavoce.info/)

Ci risiamo. Ancora una volta la politica si è messa nel mezzo e così è saltata la trattativa con AirFrance-Klm, come otto anni fa era saltata quella con Klm. Nel frattempo la compagnia ha perso prestigio, aerei e collegamenti internazionali, con danno rilevante per lo sviluppo del  Paese. Non solo, Alitalia ha perso soldi in 14 degli ultimi 15 anni e ha succhiato (per ricapitalizzazioni) oltre 5 miliardi di euro dalle tasche dei contribuenti italiani; contribuenti che in grande maggioranza non volano. La spregiudicatezza  elettorale del prossimo Presidente del Consiglio, la cecità dei sindacati e un malinterpretato federalismo territoriale hanno spinto anche Air France a ritirarsi. Ora, con la compagnia con l’acqua alla gola e a rischio di fallimento minuto per minuto, si propone un ulteriore sacrificio, un prestito “ponte” di 100-150 milioni di euro, di nuovo sulle spalle del tartassato contribuente italiano. Un prestito oltretutto che la Commissione Europea ha già bollato come illecito aiuto di Stato. Tanto che qualcuno propone di giustificare il prestito con “ragioni di ordine pubblico”. Ma a tutto c’è un limite, quantomeno di decenza. Naturalmente, il ricco Presidente del Consiglio “in pectore” e i suoi amici sono liberissimi di offrire contributi volontari alla compagnia di bandiera, se così desiderano.  Ma il Consiglio dei Ministri ancora in carica non attinga alle nostre tasche. Perché – caduta la trattativa con Air France-Klm – il “ponte” non porta da nessuna parte in tempi brevi: alla fine del ponte sembra esserci solo il vuoto o qualche altro lungo “ponte”. Insomma, tanti altri nostri soldi buttati. Sarebbe meglio che il Governo aspettasse ancora 2 o 3 giorni e poi, se non si manifestassero prospettive serie e concrete (industriali oltre che finanziarie), lasci partire il commissariamento. Probabilmente, così si arriverà al fallimento. Sarebbe forse una lezione salutare per tutti gli sgangherati attori di questa pessima…compagnia di giro.
Andrea Boitani e Massimo Bordignon
Cordate – 19 aprile 2008

AirFrance, Aeroflot. Tutto va bene per migliorare il risultato finale della trattativa. Anche se, fuori dalle polemiche elettorali, Alitalia convolerà a giuste nozze, quasi certamente con Air France. Come ha detto Berlusconi, basta che ci sia “pari dignità – il che non significa nulla, ma aiuta perché si può sempre sostenere che finora Air France non l’avesse data, e che la sua prossima proposta (quasi identica alla prima) soddisfa invece questo requisito.
E va bene così proprio per difendere l’interesse nazionale, per avere qualcuno che ha capacità manageriale, risorse finanziarie e network capaci di rilanciare questa impresa. Questo non basterà per garantire che la nuova Alitalia sappia dare un servizio di qualità a prezzi accettabili – per questo si dovrà far funzionare la concorrenza. E largo ai vari Meridiana, AirOne, ecc., ben vengano, e chi ha pilo (competitivo) farà più tela.
E Malpensa? Non è mai stato un problema del nord. Andate a Bergamo o Brescia per sentire quanto tengono a Malpensa. Eppure i milanesi ricordano bene che l’unica ragione per cui tanti volano da Malpensa è che dieci anni fa un decreto del governo (centro sinistra) chiuse centinaia di voli da Linate, che il mercato voleva tenere lì e cheper decreto sono stati deportati a Malpensa.
Il ridimensionamento di Malpensa è un problema dell’alta Lombardia e dovrà esssere risolto come tale: un problema di sviluppo territoriale.
La lega – a suo tempo contraria all’intervento dello Stato – oggi reclama i soldi di Roma per Malpensa. Ma se diamo aiuti di Stato a una delle regioni più ricche d’Europa, quanto denaro dovremo dare alla Sicilia?
Carlo Scarpa

This entry was posted in lavoro e capitale. Bookmark the permalink.