Gli scioperati salveranno il mondo. Diventa un super eroe. Venerdì 17 Ottobre 08: sciopero generale nazionale

E’ venerdì. Stai a casa a dormire e libera il tuo tempo. Vai a fare una camminata, guardati un film, stai con i figli o, più semplicemente, dormi. Oppure, meglio, vai in piazza e sciopera.

Manifestazioni centrali a:
MILANO L.GO CAIROLI( MM1) ORE 10.00
ROMA P.ZA ESEDRA ORE 10.00

– CONTRO LA POLITICA ECONOMICA DEL GOVERNO BERLUSCONI-BRUNETTA-SACCONI

– PER FORTI AUMENTI SALARIALI CHE RECUPERINO ALMENO L’ INFLAZIONE REALE

– PER LA REINTRODUZIONE DELLA SCALA MOBILE

– PER LA RIDUZIONE DEI PREZZI DEI BENI DI PRIMA NECESSITA’

– PER L’ABOLIZIONE DELLA LEGGE TREU E DELLA LEGGE BIAGI (NO AL PRECARIATO!)

– PER DIFENDERE TUTTI I DIRITTI ACQUISITI

– PER DIFENDERE LA SCUOLA PUBBLICA DALL’AGGRESSIONE DEL GOVERNO E DEI CLERICALI!

– TOLLERANZA ZERO E SANZIONI PENALI PER CHI PROVOCA INFORTUNI GRAVI O MORTALI

– PER COMBATTERE E BOICOTTARE NEI FATTI LA LEGGE BRUNETTA SUL PUBBLICO IMPIEGO

– PER IMPEDIRE LA CONTRORIFORMA AUTORITARIA DEL MODELLO CONTRATTUALE NEL SETTORE PRIVATO

– PER DIFENDERE E RILANCIARE I SERVIZI PUBBLICI

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i cpt dei “negri” ignoranti e selvaggi (verso le leggi razziali)

http://www.repubblica.it/2008/10/sezioni/scuola_e_universita/servizi/classi-inserimento/classi-inserimento/classi-inserimento.html

ovvero libera traduzione dall’italiano all’incoscio leghista-xenofobo.

"classi ponte che consentano agli studenti stranieri di frequentare corsi di apprendimento della lingua italiana, propedeutiche all’ingresso degli studenti stranieri nelle classi permanenti". LE CLASSI CPT DEI NEGRI IGNORANTI?

"nelle classi ponte, l’attuazione di percorsi monodisciplinari e interdisciplinari, attraverso l’elaborazione di un curriculum formativo essenziale, che tenga conto di progetti interculturali, oltre che dell’educazione alla legalità e alla cittadinanza".
L’EDUCAZIONE DEI NEGRI SELVAGGI?

Dal forum del corriere.it: "ho insegnato l’italiano a tre bambini
marocchini (due fratelli e una sorella) perchè potessero essere
inseriti senza troppi problemi nelle classi di appartenenza per età
anagrafica. Fu un’esperienza assai gratificante per me dal punto di
vista umano e i ragazzini si divertirono molto. Tuttavia, perchè i tre
potessero cominciare a padroneggiare la lingua italiana fummo costretti ad inserirli con gli
altri bambini italiani. Ce ne accorgemmo dopo poche settimane:
imparavano di più nel tempo di ricreazione che in aula con me. Lo
scoglio maggiore era che io non conoscevo l’arabo e neppure ero in
grado di impararlo (come avevo inizialmente creduto). Come pensa la
Lega di gestire queste situazioni, considerando una classe nella quale
insieme all’arabo si parlano anche il cinese, il lituano, il
brasiliano, il tedesco e via dicendo? Ecco a quale domanda mi
piacerebbe che rispondessero il ministro Gelmini e l’0onorevole Cota"

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no alla Gelmini, no ai baroni! (lettera immaginaria al Manifesto)

Cari compagni,
penso che la vostra copertura della "riforma gelmini" sull’università (legge 133/08) sia insufficiente.
E’
vero che dietro alla Gelmini c’è Tremonti ma è anche vero che la realtà
è sempre più complessa di quello che gli slogan ci fanno urlare.
Mi riferisco all’immorale sistema mafioso-feudale che ormai attanaglia
tutta l’università italiana e che rende praticamente (quasi) tutti i
professori strutturati suoi complici. Un sistema basato sull’arbitrio
più totale, sulla simpatia, sulla parentela, sulle conoscenze, sulla
sudditanza supina e silenziosa come precondizione per una successiva
probabile cooptazione, (quasi) mai sul merito.
Che ci siano casi d’eccellenza è inutile raccontarcelo. L’eccellenza,
nell’università, deve essere sempre ricercata e pretesa. I professori
che non producono risultati scientifici (articoli in primis, basterebbe
già questo) possono accomodarsi su una cattedra delle scuole superiori.
Quando ci renderemo conto (e lo urleremo forte) che l’improduttività e
l’impreparazione scientifica di un professore sono esattamente
identiche alla tanto vituperata rendita? E a noi le rendite non
piacciono perché tolgono arbitrariamente con la forza ed il sopruso.
Qual’è il problema dell’università? I baroni con annesso sistema
mafioso e concorsi truccati (quindi causa e prodotto di regole malate)
oppure la Gelmini? Sicuramente entrambi ma senza i primi la seconda
avrebbe molte più difficoltà nel far passare in parlamento quello
scempio che fa passare. E ancora, è vero che le fondazioni di diritto
privato pongono problemi. Quanto meno quel "privato" desta qualche
preoccupazione – qualcuno ci dirà mai esattamente cos’è una fondazione
di diritto privato? Ma che dire invece del buco di bilancio di 140
milioni che l’ex rettore di Siena Tosi, il suo attuale successore e
tutti coloro che li hanno sostenuti e votati in senato accademico hanno
gentilmente regalato a tutto l’ateneo senese e, più in generale, a
studenti e cittadini che quel debito lo ripagheranno con tasse e rette?
Siamo nella cosa pubblica o nell’affare privato e/o di casta?
In questo campo produttività e merito non devono essere mostri contro
cui far scattare le solite reazioni, lasciatemelo dire, a volte
letteralmente automatiche. Anzi, devono essere le bandiere da
sventolare per chiedere una riforma dell’università che punti
all’eccellenza, ad un sistema di borse di studio e rette che aboliscano
le barriere di classe e ad un accesso alla carriera accademica basato
sul merito.
O vogliamo prendere a modello i tanto cari luddisti inglesi? Se un
nemico utilizza uno strumento (il merito) quello strumento non deve
diventare automaticamente il nostro nemico. Marx almeno ci ha insegnato
che non è così. Anche perché tra merito e baroni io non avrei dubbi,
sceglierei senza dubbio il primo. Non mi aspetto certo queste
riflessioni da una manifestazione di piazza – eppure ricercatori e
studenti se ne stanno accorgendo e, finalmente, si stanno chiaramente
smarcando. Da un giornale d’opinione come il vostro invece una
riflessione su questi temi è d’obbligo . Certo, sarebbe falso dire che
l’argomento "baroni" non è mai stato affrontato. Ma se si vuole
ragionare attorno ad una riforma ed alla protesta ad essa collegata
bisogna ritornarci sopra più e più volte, non ci si può appiattire
sempre e solo sulla piazza o su vecchi modelli che ormai garantiscono
solo i rentiers
accademici. Bisogna scavare ed andare a fondo ed a parer mio non è
stato fatto abbastanza in questa direzione. E se si scrive – come ho
letto tempo fa – che una riforma universitaria deve essere valutata in
base al numero di baroni che riesce a far uscire dall’università,
bisogna discutere su quali siano le misure necessarie a portare a
termine il compito. E sul perché invece la riforma Gelmini non sia in
grado di farlo. Ed anche, prima di tutto, bisogna dire cos’è
esattamente l’università italiana oggi: una sorta di società basata sul
modello pre-moderno delle classi d’età, una gerontocrazia dove gli
anziani sono intoccabili ed hanno potere di vita o di morte
(accademica) sui più giovani che li devono servire e riverire. Dopo di
che ovviamente vi annuncio di aver sottoscritto qualche giorno fa la
mia parte. Ed a giorni provvederò ad un nuovo versamento. Il manifesto
deve vivere!

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I selvaggi?

Da Wikipedia

Il ciclo della vita kamba è suddiviso in gradi d’età che non dipendono
strettamente dall’età anagrafica ma dai riti di passaggio che
sanciscono lo status sociale di ogni essere umano kamba. Le classi
d’età costituiscono dei gruppi corporativi che comprendono tutti i
membri della società iniziati nello stesso periodo. Gli individui sono
raggruppati in base a dei criteri d’età e possono quindi appartenere
anche a gruppi di discendenza e gruppi territoriali differenti.
L’appartenenza ad una classe d’età implica specifici rapporti sociali,
culturali e di solidarietà verso i membri della propria classe ed anche
verso gli individui esterni.

[…] Sono soprattutto gli anziani a ricoprire questi ruoli preminenti e
prestigiosi nella comunità kamba. Il sistema sociale kamba è, infatti,
una gerontocrazia incentrata sull’estremo rispetto e sulla totale
obbedienza agli anziani.

Che differenza c’è tra i kamba e l’università italiana? entrambe funzionano sulle base della classi d’età?

http://cbr.debord.ortiche.net/letterasullostatuto-6-07-08.htm

Tutti i membri del Senato sanno benissimo che, a fronte di circa 3.000 unità
di personale strutturato, questo Ateneo conta un numero di non strutturati stimato
tra le 3.000 e le 6.000 persone.

Nella situazione attuale, con una piccola eccezione per i dottorandi, non esiste
alcuna possibilità da parte della maggior parte delle persone che fanno
ricerca a Bologna di partecipare ad alcun processo decisionale, né sulle
linee e gli indirizzi di ricerca, né sugli aspetti economici e finanziari,
né sul raccordo tra ricerca e didattica.

si potrebbe iniziare da qui: regole di rappresentanza per permettere un
vero autogoverno dell’università e, nello stesso tempo, carriera e
fondi concessi in base ai risultati.

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La riforma dell’università: il punto della situazione

La riforma universitaria,
approvata alla chetichella e senza clamore ad agosto, sta per far
sentire i suoi effetti disastrosi su tutta l’accademia italiana.
Privatizzazione e chiusure delle sedi minori le conseguenze più
probabili.


Per capire esattamente la posta in
gioco della cosiddetta riforma dell’università è
innanzitutto necessario esaminare il decreto legge
112 (detto anche decreto Brunetta e disponibile on line al seguente
indirizzo: http://www.parlamento.it/leggi/decreti/08112d.htm),
emanato dal governo il 25 giugno 2008 e convertito in legge dal
parlamento il 6 agosto. E’ infatti qui che è possibile
trovare i termini della suddetta riforma, ad onor del vero mai
annunciata perché in effetti mai ne abbozzata ne discussa. Il decreto legge infatti ha come scopo,
lo dice l’articolo 1 intitolato "Finalità e ambiti di
intervento", la riduzione del debito e la crescita del prodotto
interno lordo attraverso, tra gli altri, investimenti in innovazione
e ricerca ed il rilancio delle privatizzazioni e dell’edilizia.

Si tratta dunque di una delle tante
discutibili maxi raccolte di articoli di legge riguardanti ogni
genere di materia, dal costo dei libri scolastici (art. 15) alla
battaglia "anti fannulloni" del ministro Brunetta (art.
71). La conversione dello stesso decreto in legge, la numero 113, ad
una settimana da ferragosto, ha reso impossibile un serio dibattito
in parlamento e sui media italiani, più impegnati a dare
spazio alle intemperanze verbali di Brunetta che ad analizzare
compiutamente l’attività del governo e del parlamento.
D’altronde c’è da dire che un discussione su un decreto del
genere è stata resa nella pratica impossibile dell’estrema
eterogeneità dei contenuti e dalle necessità politiche
di un governo che sempre più sta strozzando l’autonomia del
parlamento a vantaggio di un decisionismo poco consono ad un sistema
democratico maturo e, appunto, parlamentare. Come si sia
arrivati a questo punto non è compito di questo articolo dirlo
e non è nemmeno suo compito spiegare perché il
passaggio da 5 a 10 anni della durata della carta d’identità
sia materia da decreto legge. Resta il fatto che in Italia ormai da
tempo si emanano decreti contenenti « misure necessarie e
urgenti » che comprendono al loro interno tutto ed il
contrario di tutto: università, provvedimenti per la riduzione
delle emissione di CO2 e della carta nelle pubbliche amministrazioni,
regolamentazione della banda larga e della “ricerca e coltivazione
di idrocarburi nelle acque del golfo di Venezia” . E sopratutto,
cosa ormai non più sorprendente ma francamente immorale, resto
il fatto che si chieda al parlamento di votare il polpettone di
turno senza uno straccio di riflessione ed un dibattito pubblico e
partecipato. Ovviamente un atteggiamento responsabile avrebbe
consigliato di votare no ma non è il caso di disquisire troppo
su di un tema che ci porterebbe lontano.


Facoltà
di trasformazione in fondazioni delle università

Per quello che ci riguarda mi limiterò
qui ad illustrare ciò che concerne l’università
italiana.
Il primo articolo di
nostro interesse e forse il più importante è l’articolo
16, intitolato “
Facoltà
di trasformazione in fondazioni delle università”. Si
permette cioè a ciascuna università, attraverso un voto
a maggioranza assoluta del proprio senato accademico, di trasformarsi
in fondazioni di diritto privato. Tutte le proprietà
immobiliari saranno dunque trasferite alle nuove fondazioni che
potranno aprirsi a “nuovi soggetti, pubblici o privati.” Avranno
inoltre "autonomia gestionale, organizzativa e contabile" e
potranno adottare regolamenti "anche in deroga alle norme
dell’ordinamento contabile dello Stato e degli enti pubblici".
Sarà infine loro cura raggiungere "l’equilibrio di
bilancio" fermo restando, così dice l’ambiguo comma 9, il
sistema di finanziamento pubblico che terrà conto, a "fini
perequativi", dell’entità del finanziamento privato. Pur sforzandosi di fare astrazione delle valutazioni politiche è
indubbia l’assoluta rilevanza di questo articolo. Si configura qui
una vera rivoluzione copernicana dell’università italiana che,
da pubblica, diventa totalmente privata ed autonoma. L’intervento
pubblico si limiterebbe così a colmare i buchi nel bilancio
che la mano privata lascerebbe scoperti (i “fini perequativi”) ma
in una prospettiva di futura totale autonomia gestionale e
finanziaria delle fondazioni universitarie stesse. Anche
i contratti di lavoro del personale insegnante e non sarebbero
lasciati alla libera contrattazione tra le parti ed infatti il
penultimo comma, il 13, dichiara che “il trattamento economico e
giuridico” rimarrà in vigore “fino alla stipulazione del
primo contratto collettivo di lavoro”.

Incentivi
alla trasformazione

Risulta
evidente che un trasformazione del genere di quella proposta
dall’articolo 16 potrebbe essere sicuramente avversata, quanto meno
per principio, da parti anche consistenti o addirittura maggioritarie
del corpo docente e studentesco. Come fare dunque per ottenere un
voto in tal senso dal senato accademico di ciascuna università?

In
nostro soccorso viene il titolo III, “Stabilizzazione della finanza
pubblica”.
L’articolo 66, comma 13, riduce infatti il fondo per
il finanziamento ordinario delle università di “63,5 milioni
di euro per l’anno 2009, di 190 milioni di euro per l’anno 2010, di
316 milioni di euro per l’anno 2011, di 417 milioni di euro per
l’anno 2012 e di 455 milioni di euro a decorrere dall’anno 2013.”

La strategia che si delinea qui è con evidenza improntata
allo strangolamento finanziario delle università pubbliche
che, già provate da anni di continui tagli (Mussi e Moratti,
tanto per citare gli ultimi due ministri), saranno messe con le
spalle al muro: o morire e chiudere i battenti o aprirsi
nell’organizzazione e nella gestione ai privati sperando di poter
incassare in cambio qualcosa dal punto di vista finanziario. Risulta
a questo punto quasi derisoria la rassicurazione del già
citato articolo 16 comma 9 riguardante l’attività
compensatoria dello stato nei confronti del bilancio delle nuove
fondazioni. Da un lato si dichiara di voler sostenere gli oneri
finanziari dell’università, dall’altro si taglia quasi un
miliardo e mezzo di euro da qui al 2013.

E’ stato però
fatto notare che le università trarranno graduale e costante
sollievo finanziario dai pensionamenti di larga parte della classe
docente entrata in università negli anni 60 e 70 – e quindi,
visto l’anzianità, costosa – e da altri risparmi legati agli
art. 67 e 74. Questo è solo in parte vero. Innanzitutto, se
da un lato molti docenti andranno in pensione, dall’altro non si
prevede una loro adeguata sostituzione. Fino al 2011 infatti non sarà
permesso che un rimpiazzo del 20% del personale uscente mentre per
l’anno 2012 si parla del 50%.
Certo si tratta di stabilizzazioni,
quindi contratti a tempo indeterminato. L’effetto però sarà
quello di accrescere sempre più il numero dei precari in
università. Precari a cui si provvede ad abbassare lo
stipendio già magro di suo. Gli aumenti salariali per
anzianità non saranno infatti più biennali ma triennali
ed i risparmi ottenuti non saranno disponibili alle università
stesse ma confluiranno in un capitolo generale (comma 2 dell’art. 69)
di cui si ignora l’utilizzo.

Obiettivamente è difficile
raccapezzarsi e trovare un senso in questi articoli. Il perché
lo spiega l’interlocutorio comma 6 dell’art. 66 che permette per
quest’anno di assumere a tempo indeterminato fino ad un massimo di 75
milioni di euro a regime. Il risultato è stato una vera e
propria “
corsa
alla spesa
:
tra aprile e giugno le università hanno bandito 685 posti di
professore ordinario e 1093 posti di professore associato. “
(1)

Cosa
cambia in soldoni

"Il
Paese deve sapere che con tale misura [si riferisce agli articoli 66
e 69,
ndr],
se mantenuta e non modificata, si determinerà una condizione
finanziaria del tutto incontrollabile e ingestibile, con effetti
dirompenti per gli atenei. Si renderà sempre più
difficile l’ingresso nei ruoli di giovani di valore; peggiorerà
il livello di funzionalità delle Università, anche come
conseguenza dell’ulteriore mortificazione delle condizioni
retributive del personale tecnico e amministrativo; diventerà
sempre più difficile se non impossibile reggere alla
concorrenza/collaborazione in atto a livello internazionale; si
annullerà di fatto il fondamento stesso dell’autonomia
universitaria, come definita negli anni ’90, basata sulla gestione
responsabile dei budget."

E’
questo ciò che ha dichiarato il CRUI, la conferenza dei
rettori italiani, il 24 luglio scorso.

L’università
viene, grazie ad un decreto votato sull’onda della guerra ai
fannulloni di Brunetta, privata del 20% delle proprie risorse
finanziarie. Per rimediare a questo stato di cose e per tentare di
rinnovare – e trattenere visto la continua fuga dei nostri
ricercatori all’estero – davvero il suo personale l’università
pubblica italiana sarà costretta ad auto privatizzarsi.
Il
come è lasciato all’autonomia di ciascun istituto che, una
volta diventato fondazione, sarà amministrato anche da privati
che potranno gestire e disporre del patrimonio immobiliare.

Il
rettore della statale di Milano nonché presidente del CRUI
stesso si era d’altra parte già espresso piuttosto
chiaramente:

"Il
nostro sistema universitario è già largamente
sottofinanziato rispetto agli standard europei. Ci viene chiesto di
sommare l’aumento inevitabile delle spese obbligatorie ai tagli che
vengono ora previsti in crescita per cinque anni. L’università
non reggerà l’impatto. Una situazione che determinerà
inevitabilmente aumenti delle entrate proprie. Ivi comprese le
contribuzioni studentesche. Ma che in ogni caso porterà
inevitabilmente l’intero sistema universitario pubblico  al
dissesto. Inoltre, la limitazione delle assunzioni di personale a
tempo indeterminato al 20% del turn over danneggerà gravemente
la funzionalità scientifica e didattica degli Atenei. E le
prime vittime sarebbero i giovani ricercatori, le cui possibilità
di ingresso nel sistema universitario verrebbero drasticamente
ridotte".


Il
decreto legge 112 è un decreto "pesante" che sta
portando alla mobilitazione addirittura il CRUI, di solito propenso
al dialogo ed alla conciliazione sempre e comunque. Il perché
l’abbiamo già detto: si tagliano i fondi di 1 miliardo e 400
mila euro nei prossimi 5 anni e di quasi mezzo miliardo per il 2009
quando, stando all’ultimo rapporto Ocse (Education at a Glance 2007),
la percentuale del prodotto interno lordo italiano dedicato
all’università è dello 0,8% contro una media dell’1.3
dei paesi avanzati. Per ogni studente in italia si stanziano (dati
riferiti al 2004) 7.700 dollari contro i 9.400 della Spagna, i 10.700
della Francia e i 12.200 della Germania.

Paradossalmente le
tasse di iscrizione dovranno diminuire nei prossimi anni – siamo
tutti però sicuri che questo, per i più svariati
motivi, non avverrà mai – e questo perché non possono
per legge superare il 20% del fondo ordinario che è stato
saccheggiato di un miliardo e mezzo di euro. O gli atenei si
atterranno alla legge e, come sta avvenendo a Firenze, andranno
incontro alla bancarotta, oppure cresceranno le proteste e la
tensione con le organizzazioni ed i sindacati studenteschi attenti ai
diritti dei propri rappresentati. Anche qui rimane la via d’uscita
indicata in apertura: la privatizzazione e la conseguente
liberalizzazione – o dovremo dire deregulation selvaggia? – della
gestione, tasse universitarie e borse di studio comprese. Inutile
dire che si tratterà di un innalzamento brusco e
repentino.

Università privatizzata e tasse raddoppiate
da un anno all’altro? (S)vendita del patrimonio immobiliare di pregio
delle grandi università? Indebitamento con le banche e
gestione privata dell’istruzione e della ricerca che dovrebbe essere
pubblica? Senato accademico svuotato di ogni residua
rappresentatività e potere ai consigli dei sindaci delle nuove
fondazioni private?

Non è una prospettiva così
peregrina. Giudo Barbujani ha parlato esplicitamente di “atti
vandalici contro il sistema universitario” (2) e si chiede che
senso abbia un decreto legge che, per garantire lo sviluppo
economico, punti esclusivamente a disinvestire. Anche negli USA, dove
l’università è molto differente dalla nostra, i
finanziamenti pubblici sono il doppio di quelli italiani. Per lui la
situazione è chiara: o si privatizza con lo sponsor e ci si
laurea a prezzi di mercato oppure si chiude.

Resta
da capire – aggiunge – come potranno scommettere sul proprio
talento i nostri migliori laureati, senza investimenti nella ricerca,
senza borse di studio, senza futuro nel sistema accademico.”
E’
inutile negarlo: l’università italiana era già allo
sbando prima della legge 113/08. Questa riforma appare però
come il definitivo colpo di grazia.

"La
situazione è talmente grave e netta che dobbiamo essere in
grado di dare risposte nette. È necessario che non parta il
prossimo anno accademico" ha dichiarato il coordinatore
nazionale dei ricercatori nonché membro del senato accademico
della Sapienza Marco Serafina."

1)
http://www.lavoce.info/articoli/-scuola_universita/pagina1000555.html

2)
Il pane per la ricerca,
Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2008

Approfondimenti:

http://universita-ricerca.wetpaint.com/page/Materiale
http://attachments.wetpaintserv.us/m1h9B6N7MhatWr63Iu5v4A%3D%3D393439
http://www.lavoce.info/articoli/-scuola_universita/

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Il berlusconismo non è fascismo è dittatura del semiocapitale

Il berlusconismo non è fascismo
è dittatura del semiocapitale

Franco Berardi Bifo
All’inizio di agosto è venuta fuori una discussione che meriterebbe di essere approfondita: il regime instaurato dalla terza vittoria di Berlusconi può essere considerato come un regime fascista? In un articolo uscito sul Manifesto all’inizio di agosto Alberto Asor Rosa rispondeva di sì, anzi sarebbe «anche peggio». In un’intervista uscita sul Corriere della sera Massimo Cacciari reagiva facendo spallucce. Macché fascismo e fascismo, figuriamoci. Mica si mettono in carcere gli oppositori, e poi Berlusconi non porterebbe mai l’Italia in un conflitto mondiale.
La risposta di Cacciari, poche battute forse travisate o mal comprese dal giornale, m’è parsa, più che codarda, superficiale. Ma la posizione di Asor Rosa, fondata su una visione noceventesca della democrazia, rischia di interpretare con un concetto vecchio le forme attuali del totalitarismo.
Cacciari, un pensatore che un tempo suscitava ammirazione profonda, da alcuni anni sembra divenire tanto più tranchant quanto più inconcludente e futile si fa il suo ragionamento. Il precipitare della crisi internazionale in cui l’Italia è coinvolta, è sempre più vicina a trasformarsi in un conflitto generalizzato.
E cosa induce l’ottimo Cacciari a garantire
che l’Italia non sarà trascinata a combattere
per il solito vincitore, che poi,
strada facendo diventa lo sconfitto?
Perché insistere a chiederci se si tratta o
no di fascismo? Quello prodotto da trent’anni
di bombardamento televisivo è
probabilmente peggio del fascismo storico,
perché non si fonda sulla repressione
del dissenso, non si fonda sull’obbligo
del silenzio, ma tutto al contrario, si fonda
sulla proliferazione della chiacchiera,
sull’irrilevanza dell’opinione e del discorso,
sulla banalizzazione e la ridicolizzazione
del pensiero, del dissenso e della
critica. Il totalitarismo di oggi non è fondato
sulla censura del dissenso ma su un
immenso sovraccarico informativo, su
un vero e proprio assedio all’attenzione.
Non si può in alcun modo assimilare
l’attuale composizione sociale del paese
con la composizione sociale, prevalentemente
contadina e strapaesana dell’Italia
degli anni Venti. Nei primi decenni del
secolo ventesimo, il modernismo futurista
dei fascisti introduceva un elemento
di innovazione e di progresso sociale,
mentre oggi il regime forzitaliota non
porta dentro di sé alcun germe di progresso,
e la sua politica economica si fonda
sulla dilapidazione del patrimonio accumulato
nel passato. In questo Asor
Rosa ha visto giusto. Il fascismo è un fenomeno
di modernizzazione totalitaria,
il berlusconismo è un fenomeno di devastazione
della civiltà sociale della modernità.
Mentre il fascismo avviò un processo
di modernizzazione produttiva del
paese, il regime forzitaliota ha dissipato
le risorse accumulate dal paese negli anni
dello sviluppo industriale, come aveva
fatto Carlos Menem in Argentina nel
decennio che ha preceduto il crollo di
quell’economia e di quella società. Ma
questo carattere dissipativo è perfettamente
coerente con la tendenza principale
che si manifesta nel pianeta nell’epoca
neoliberista.
Il capitalismo moderno era fondato su
alcune regole direttamente riconducibili
all’etica protestante. Regole su cui si fondava
la fiducia, elemento decisivo dell’economia
borghese moderna.
Ma ora la forma weberiana dello sviluppo
si esaurisce per il capitalista post-borghese
il quale sa che il credito non dipende
dai valori protestanti dell’affidabilità,
dell’onestà, della competenza, ma dal ricatto,
dalla violenza, dalla protezione familiare
e mafiosa. Non si tratta di una
temporanea caduta del rigore morale, di
un’ondata di corruzione. E non si tratta
neppure di un fenomeno di arretratezza.
Si tratta di un mutamento della natura
profonda del processo di produzione. La
determinazione del valore ha perduto la
sua base materiale, oggettiva (il tempo di
lavoro socialmente necessario, come dice
Marx), e ora dipende dal gioco di simulazione
linguistica, dei media, della
pubblicità, della produzione semiotica,
ma anche dalla violenza.
Ecco allora che la prospettiva in cui vedemmo
l’Italia nella passata epoca moderna
ora si ribalta: proprio ciò che aveva
fatto dell’Europa meridionale controriformata
un luogo arretrato, ora ne fa laboratorio
delle forme di potere postmoderno.
Proprio ciò che aveva messo l’Italia
alla retroguardia dello sviluppo capitalistico
moderno, diviene il motivo della
sua capacità di anticipazione. Proprio
perché predomina la cultura del familismo
immorale, della violenza mafiosa e
del raggiro mediatico, negli anni Novanta
di Berlusconi l’Italia diviene il laboratorio
culturale e politico del capitalismo
criminale iperliberista. La scarsa penetrazione
dell’autorità statale nelle pieghe
della società e dell’economia è sempre
stata considerata un fattore di arretratezza
e di debolezza, ma il neo-liberismo ha
creato una situazione in cui gli interessi
privati, gli interessi di famiglia e di clan
prevalgono sugli interessi pubblici. In
nome di un’ideologia della libera impresa
e del libero mercato si è in effetti aperta
la strada a una sorta di privatizzazione
dello stato. La macchina statale non è stata
ridimensionata, ma si è messa al servizio
di interessi di famiglia. Questo processo
non si è svolto solamente in Italia,
ma qui le condizioni culturali erano particolarmente
ben predisposte.
La deregulation economica ha liberato
immense energie produttive, e al tempo
stesso ha indebolito o distrutto le difese
che la società moderna aveva costruito
per proteggersi dall’aggressività predatoria
del capitale.
Come al capitalismo proprietario si addiceva
il decoro gotico e severo, così al
capitalismo finanziarizzato si confanno
sembianze barocche. A partire dagli
anni ottanta, lo spirito barocco della
Controriforma, che aveva impacciato
le società meridionali fino a tutto il novecento,
non è più un elemento di arretratezza.
Il borghese moderno era legato alla sua
impresa perché le macchine, i luoghi, i lavoratori
dell’industria erano la sua proprietà.
Il capitalismo virtuale separa la
proprietà dall’impresa, l’impresa si finanziarizza
e si immaterializza. La corporation
globale può spostare il suo investimento
in pochi istanti senza render conto
ai sindacati, alla comunità, allo stato.
Il capitale non ha più alcuna responsabilità
verso la società, e ormai, come abbiamo
visto nel caso Enron, neppure nei
confronti dei suoi azionisti. L’etica protestante
non è più redditizia. E’ molto più
efficace l’etica della compromissione mafiosa,
del ricatto e dello scambio illegale.
Nel processo di globalizzazione l’Italia
non è sfavorita dall’illegalismo e dall’immoralità
della sua nuova classe dirigente,
come la sinistra moralista paventa. Al
contrario, l’Italia diviene il paese nel quale
la dittatura tardo-liberista meglio può
svilupparsi.
Qui il regime incorpora comportamenti
del fascismo (la brutalità poliziesca, che
abbiamo visto a Genova nel 2001, l’irresponsabilità
che portò l’Italia di Mussolini
alla guerra catastrofica del 1940-45, il
servilismo che ha sempre caratterizzato
la vita intellettuale italiana). Incorpora caratteristiche
proprie della mafia (il disprezzo
per il bene pubblico, la tolleranza
per l’illegalità economica).
Ma non per questo è una riedizione del
regime fascista né come un sistema di
mafia. Neoliberismo aggressivo e mediapopulismo
sono i suoi ingredienti decisivi,
ed esso funziona obiettivamente come
laboratorio delle forme culturali e politiche
che accompagnano la formazione
del semiocapitale.

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Come nacque e come morì il “marxismo occidentale” Domenico Losurdo

http://eprints.sifp.it/73/1/LOSURDO.html

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Entretien avec Domenico Losurdo

https://noblogs.org/admin.php?op=blogSelect&blogId=4609
 
Le libéralisme s’impose-t-il à la gauche ? Domenico
Losurdo, historien et philosophe, bat en brèche la prétention des
libéraux d’hier et d’aujourd’hui à être reconnus comme dépositaires
d’un projet d’émancipation humaine.

Pour
penser la liberté et l’individu, la gauche doit puiser dans son propre
corpus. Entretien avec l’auteur d’une « Contre-histoire du
libéralisme ».

Le rapport au libéralisme est-il, ou devrait-il
être effectivement, le clivage structurant de la gauche française et
européenne ?

Domenico Losurdo.
En 1948, la Déclaration des droits de l’homme établie par
l’Organisation des nations unies (ONU) reconnaissait des droits
économiques et sociaux (droit à l’éducation, droit au libre choix de
son travail et à la protection contre le chômage, etc…).

Ce à quoi nous assistons actuellement, notamment en Europe, c’est
précisément au démantèlement des réalisations concrètes correspondant à
ces droits (la Sécurité sociale, les systèmes de retraite par
répartition, etc…).

Ce démantèlement s’accompagne de la négation même, au plan
théorique, de la valeur de ces droits. C’est ce double phénomène que
l’on peut caractériser comme contre-révolution néolibérale. Pour
riposter efficacement, il me semble nécessaire de se placer dans une
perspective historique.

Cela permet de comprendre que les droits de l’homme ne se sont
jamais développés en vertu d’une dynamique interne au libéralisme, qui
aurait été empêchée, pour des raisons conjoncturelles, de déployer dans
la sphère économique une logique de droit qu’elle aurait par contre
réussi à imposer dans la sphère politique contre les divers
conservatismes, notamment religieux.

Cette vision linéaire de l’histoire est absolument fausse. En
vérité, le libéralisme, par-delà la diversité de ses sensibilités, a eu
tendance à récupérer à son crédit des droits que les bourgeoisies ont
dû simplement reconnaître de guerre lasse, au siècle dernier, dans le
contexte de la guerre froide.

Dans les années 70, Friedrich A. Hayek, alors inspirateur de la
politique économique de l’administration Reagan, parlait des droits
économiques et sociaux comme d’une invention ruineuse de la révolution
bolchévique russe. Il ne raisonnait pas en termes de compatibilité ou
pas de ces droits avec les moyens financiers de l’Etat. Il attaquait au
contraire les droits en question à la racine, sur leur légitimité même.
Aujourd’hui, on voit triompher la posture d’Hayek, mais dans un
contexte où il n’y a plus le défi du monde socialiste. Cela ne veut pas
dire qu’il faille revoir à la baisse les ambitions sociales. Au
contraire !

Le libéralisme défend-il la liberté ?

Domenico Losurdo.
Les pères fondateurs de ce courant d’idée justifiaient l’esclavage. Le
philosophe anglais Locke était même impliqué personnellement en tant
qu’actionnaire de la société qui gérait la traite des esclaves.

Si nous prenons les deux pays les plus représentatifs de la
tradition libérale, à savoir l’Angleterre et les Etats-Unis, nous
voyons que ce sont également les pays les plus impliqués sur le plan
historique dans la tragédie de l’esclavage des Noirs. Les Etats-Unis
n’ont aboli l’esclavage des Noirs qu’en 1865. Et même après, les Noirs
n’y ont pas joui de la liberté. C’est seulement à la moitié du 20ème
siècle qu’ils ont acquis les droits politiques.

Le dépassement de la discrimination raciale, de la discrimination
contre les femmes, ou de la discrimination censitaire ne sont donc pas
les fruits du libéralisme, ce sont au contraire les acquis, même s’ils
sont précaires et incomplets, des grandes luttes populaires du
mouvement socialiste et communiste.

Le libéralisme ne peut-il revendiquer aucun apport propre à la démocratie politique ?

Domenico Losurdo.
On peut reconnaître au libéralisme, notamment celui de Montesquieu, le
mérite d’avoir posé la question de la limitation et de la séparation
des pouvoirs. Le marxisme historique, lui, a souvent escamoté le
problème, préférant évoquer carrément la disparition totale de l’Etat.

L’enfermement dans cette perspective utopique est venue aggraver les
difficultés pour la construction d’un Etat socialiste démocratique.
Mais ce n’est pas à partir d’un libéralisme quelconque que l’on peut
vraiment critiquer le marxisme sur ce point. Car le libéralisme est en
réalité très ambigu.

D’un côté, il revendique effectivement la limitation des pouvoirs ;
mais de l’autre, il célèbre le pouvoir absolu sur les esclaves et les
peuples coloniaux. John Stuart Mill, considéré comme un des libéraux
les plus progressistes, estimait en son temps que certaines « races
mineures » – c’est le terme qu’il emploie – sont obligées à une
« obéissance absolue » envers les maîtres de l’Occident. Ce n’est donc
pas en se proclamant libérale que la gauche en crise peut se racheter
une conscience anti-totalitaire, si c’est ce qu’elle cherche. Au
contraire, elle ne fait qu’ajouter à la confusion.

Un vrai débat doit par contre s’amorcer sur la question de l’Etat et
de la démocratie. Considérant le poids croissant de l’argent et de la
richesse dans les élections aux Etats-Unis, Arthur Schlesinger jr., un
illustre historien américain, estimait qu’on assiste en fait à la
réintroduction de la discrimination censitaire.

Comme éviter cette régression et la perte des droits politiques déjà
acquis ? La question décisive est de savoir quel contenu l’on veut
donner à la démocratie : est-ce juste la consécration des rapports
arbitraires dans la société et notamment dans l’entreprise, mais
également entre les nations ? Ou bien s’agit-il du processus de
reconnaissance politique des droits conquis et leur développement dans
et par les luttes sociales ?

Les ténors de gauche qui se réclament du
libéralisme insistent en fait fréquemment sur ce qui s’apparente
surtout à un libéralisme des mœurs, que l’on peut en effet défendre au
nom du progrès humain…

Domenico Losurdo.
Le souci de défendre les libertés individuelles est bien évidemment
légitime. Ce qui pose problème, c’est la façon d’envisager la question.
On a l’impression que la gauche aurait d’emblée à piocher ailleurs que
dans son propre corpus idéologique pour penser les droits de
l’individu, son émancipation.

Je pense au contraire qu’il s’agit de développer encore ce corpus,
de l’approfondir. Lorsqu’on parle en général de Marx et du marxisme, on
considère, plus ou moins explicitement, qu’ils auraient insister sur
l’égalité, non sur la liberté. C’est là un préjugé. Le Manifeste du
Parti Communiste, dont nous fêtons cette année le 160ème anniversaire,
parle de la lutte pour supprimer "le despotisme dans la fabrique". La
lutte des classes envisagée par Marx n’est pas censée se limiter à des
objectifs matériels. C’est une lutte pour la liberté.

Dissocier les questions sociétales des questions sociales, le plan
politique et culturel du plan économique, cela revient même à nier la
pensée bourgeoise la plus avancée. Avant Marx, Hegel expliquait dans un
texte célèbre de « La philosophie du droit » qu’un homme qui risque de
mourir de faim se trouve dans une condition d’absence absolue de droit,
c’est-à-dire dans la condition d’un esclave. Lorsque l’inégalité
matérielle atteint un certain degré, elle devient alors une condition
d’absence de liberté. On revient à la question démocratique.

Mais lorsque la gauche pose la question
démocratique en terme de démocratie sociale, elle se voit fréquemment
accusée de protectionnisme. De là à l’accuser de nationalisme, il n’y a
qu’un pas, parfois franchi allègrement dans le débat sur l’Europe…

Domenico Losurdo.
Une chose est l’affirmation, la défense de l’identité ou de la dignité
nationale, une autre est le chauvinisme. On a tendance à faire une
confusion entre les deux. La distinction me paraît pourtant très
simple : d’un côté, nous avons une attitude universalisable ; de
l’autre, une posture exclusive.

L’affirmation de la dignité de la nation française, américaine ou
italienne est parfaitement compatible avec l’affirmation de la dignité
de toute autre nation, de tous les peuples. Par contre, lorsque le
président Bush affirme que les Etats-Unis sont la « nation élue par
Dieu » pour gouverner le monde, cette attitude n’est pas
universalisable. Il suffit qu’un autre pays ait la même prétention pour
que ce soit l’affrontement.

Aujourd’hui, le chauvinisme par excellence est celui des Etats-Unis,
pays qui se pose en héros du libéralisme. Et l’Union européenne,
servile vis-à-vis des Etats-Unis, reproduit leur attitude de « nation
élue par Dieu », dans ses rapports avec les pays du Tiers-Monde. Lénine
avait très bien expliqué le lien entre l’impérialisme, le nationalisme
et le racisme.

L’une de ses définitions de l’impérialisme est la suivante :
« l’impérialisme est la prétention d’un petit groupe de soi-disant
nations élues » de monopoliser pour elles seules le droit de constituer
un Etat national et souverain, autrement dit d’exclure de ce droit les
peuples considérés comme inférieurs.

La lutte pour l’égalité des nations est toujours actuelle. Et c’est
une lutte progressiste, au nom des libertés et de la démocratie, qui se
mène contre le système capitaliste et son idéologie libérale.

Entretien réalisé par Laurent Etre

(Version intégrale de l’entretien publié dans l’Humanité du 30 juin 2008)

Domenico Losurdo est
l’auteur d’une « Contre-histoire du libéralisme », non encore traduite
en français ; a notamment publié « Gramsci, du libéralisme au
communisme critique », éditions Syllepse, 2006.

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IL MINISTRO VA IN GUERRA. CIVILE.

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Intervista e articolo
sono pubblicati su LEFT dell’8 agosto

 

IL MINISTRO VA IN GUERRA. CIVILE
di Chiara Agostini e Manuele Bonaccorsi

 


Ministro
Brunetta, è un vero piacere intervistarla, specialmente per un giornale come
left, dichiaratamente di sinistra. Non possiamo però non farle notare subito
che il governo, con i tagli all’editoria, sta mettendo a rischio l’esistenza di
decine di testate. Senza un passo indietro sarebbe la più grande morìa di
giornali dai tempi del fascismo.

È
mia intenzione preparare una riforma per togliere ai giornali anche i
finanziamenti che derivano dalla pubblicazione obbligatoria dei bandi di gara e
dei bilanci. Sono soldi buttati, basterebbe pubblicarli sui siti internet dei
singoli enti per risparmiare 200, 300, forse 400 milioni di euro ogni anno. Si
tratta di una tassa medievale pagata agli editori.

A proposito di
tasse medievali. Il governo ha tagliato i fondi alla stampa cooperativa, ma non
ai giornali quotati in borsa, che fanno utili. Penso al Sole 24 ore, a
Repubblica o al Corsera.

È
una cosa che ho denunciato pubblicamente e in risposta sono stato insultato in
diretta a Porta a porta. Si parla tanto di caste. Bene, di “caste” ce ne sono
tante, quella dei giornalisti è una. Una parte dello stipendio di Stella e
Rizzo, ad esempio, viene dallo Stato che dà al loro giornale 22 o 24 milioni di
euro l’anno per carta e abbonamenti postali.

Rimane però il
problema della stampa cooperativa. Molte voci indipendenti rischierebbero di
chiudere.

Si
può ragionare su forme di incentivazione. Ma non credo che lo Stato debba soste nere i giornali di partito.

Neppure le
cooperative indipendenti di giornalisti?

Neppure quelle.

Non
si può chiedere ai giornali, però, di stare sul mercato da soli, in un sistema
pubblicitario dominato da un duopolio che non lascia altri spazi.

Il problema del mercato non è la posizione dominante, ma
l’abuso di posizione dominante. Proprio questa è la funzione dell’antitrust. Ma
passiamo ai nostri temi.

Bene.
Partiamo allora dagli ultimi dati che ha diffuso il suo ministero. Voi
sostenete che a giugno le assenze dei dipendenti pubblici sono diminuite del 30
per cento.

L’indagine parla da sola. È paradossale che alcuni
sindacati e governi locali si siano quasi irritati. Irritarsi di un fenomeno
negativo che regredisce mi sembra paradossale. Questo perché l’indagine non è
stata fatta passando per il sindacato e per i governi locali. Io sto cercando
di dimostrare che grazie a una “coralità di popolo”, di opinione pubblica, a
interventi normativi, ad azioni di stigmatizzazione, l’assenteismo è diminuito.
Mi stupisce che qualcuno si adonti di questo, il Codacons ad esempio:
un’associazione dei consumatori, come il sindacato, dovrebbe avere tutto
l’interesse a veder diminuire l’assenteismo.

Quanto è
rappresentativa l’in
dagine? Si tratta solo di 27 amministrazioni su
9.800, tra cui 7 Comuni su oltre 8mila.

La
nostra è un’indagine pilota che riguarda solo alcune amministrazioni,
individuate con un minimo di criterio, senza la rappresentatività dei campioni
statistici e quindi senza la possibilità di estendere il risultato
all’universo. In queste amministrazioni, a maggio l’assenteismo è diminuito del
10 per cento, a giugno del 20 per cento. Non si può estendere questo dato a
tutta la P.a., ma è probabile che sia uguale anche altrove.

Quando ci saranno dati più
certi?

A
luglio, settembre e ottobre ci saranno altre indagini, più esaustive.
L’obiettivo è di arrivare all’analisi dell’intero universo, quindi di tutte le
amministrazioni. Questi dati dovremmo averli per la fine dell’anno perché c’è
l’obbligo di legge di produrli.

I dati
ufficiali del conto annuale evidenziano che nel pubblico i giorni persi per
malattia sono mediamente 10,8. Secondo Federmeccanica, nel privato sono circa
9,6. Non è una gran differenza. Un giorno all’anno per dipendente.

Per
il settore privato i dati non ci sono, queste informazioni infatti non vengono
rilevate con scientificità.

Dai dati del
Conto annuale, emerge un’elevata presenza di donne nella Pubblica
amministrazione, che tendono a fare più assenze per gli impegni familiari. Ad
esempio, tra le assenze per malattia e per permessi retribuiti vengono
conteggiati anche la gravidanza e la cura dei figli sotto i tre anni. E su
tutte le assenze per malattia, quelle delle donne influiscono per oltre il 60
per cento. Si tratta solo di fannulloni, o anche della difficoltà di conciliare
famiglia e lavoro?

Il
vero problema non è prendersela con qualcuno o con qualcun altro, ma
individuare un fenomeno che nel pubblico impiego è certamente rilevante. Per
tantissime ragioni, finora poco studiate e soprattutto mai interpretate in
termini politici. Il vero problema è che l’assenteismo non costa nulla al
cliente finale. O meglio, il cliente finale, ovvero il cittadino, non reagisce
all’assenteismo. Nel settore privato, invece, l’assenteismo colpisce
direttamente i profitti. Ad esempio, alla Fiat, prima della marcia dei
quarantamila, c’erano tassi di assenteismo elevatissimi. Dopo il fenomeno si è
ridotto notevolmente. Vuol dire quindi che l’assenteismo è segno di una cattiva
organizzazione.

Ma quanti sono i “fannulloni”?

Nessuno
lo sa. Potenzialmente tutti. Nella Pubblica amministrazione non c’è nessun
controllo e il risultato è che la massa dei dipendenti, se vogliono lavorare,
lavorano, altrimenti non lo fanno. È quasi un miracolo che il sistema produca
beni e servizi, dato che è lasciato completamente a se stesso.

Come può essere controllata la
pubblica amministrazione?

I
beni e i servizi pubblici hanno un padrone che non è tale, un dirigente che
dovrebbe fare le veci del padrone e spesso non le fa. E non c’è un mercato con
i prezzi.

Quindi come si può valutare la
produttività?

Quando
tu hai un “non mercato”, hai dei beni e dei servizi che costano, ma non hanno
un prezzo. La scuola, la sanità, la sicurezza, hanno un costo ma non un prezzo.
Come si può allora misurare qualità, efficienza, produttività in un sistema che
ha costi e non prezzi? Questo è il problema generale di tutte le
amministrazioni che deve essere risolto con dei succedanei, con delle cose che
“somigliano a…”. Nella Pubblica amministrazione il padrone è il policy maker (l’eletto) che spesso ha
delle funzioniobiettivo diverse rispetto a quelle del padrone che mira al
profitto. Il policy maker dovrebbe
avere l’obiettivo del benessere dei cittadini, ma spesso punta invece alla
massimizzazione del suo potere, che è legata alla quantità di gente che riesce
ad assumere. Mentre il privato assume forza lavoro in ragione dell’efficienza e
non può assumerne di più, altrimenti vede ridurre il proprio profitto, il policy maker punta a massimizzare
l’occupazione a prescindere dai costi.

Ma come si migliora la qualità
della Pubblica amministrazione con i tagli a pioggia previsti dalla manovra
economica?

Questa
è solo banale polemica.

Beh, i tagli
sono nero su bianco. Trenta miliardi in tre anni. Comuni e Regioni hanno alzato
barricate. Tremonti ha detto: «Faremo come in un condominio, ognuno pagherà la
sua parte».

State
intervistando me, non Tremonti.

Ci scusi. Forse
non ci siamo spiegati bene. Vorremmo capire: come si fa a rilanciare la qualità
della Pubblica amministrazione con tagli alla spesa?

Il
decreto 112 contiene alcune correzioni di spesa pubblica, comprese quelle
inerenti il personale. Sul contratto del pubblico impiego abbiamo sospeso per
un anno dei fondi, che saranno ripristinati nel successivo e ridotti del 10 per
cento. L’obiettivo è quello di ridurre una parte di spesa legata agli stipendi
di una parte di Pubblica amministrazione.

Lei ha lanciato
un piano industriale per la Pubblica amministrazione. Ma, chiediamo ancora,
come si fa senza nuovi investimenti?

La
spesa corrente per la Pubblica amministrazione è di circa 700 miliardi di euro,
noi stiamo facendo una correzione di 34,8 miliardi di euro in tre anni per
raggiungere l’obiettivo di “zero deficit” e di rapporto debito/pil al di sotto
del 100 per cento. I tagli sono stati fatti nella parte di spesa cattiva e
improduttiva. Voi mi chiedete come è possibile fare una ristrutturazione
tagliando? Normalmente si fa proprio così. Quando si compra un’azienda si devono
affrontare i problemi delle singole aree e normalmente, mettendola sul mercato,
si può risparmiare il 30 per cento. Parte della riduzione della spesa verrà
reinvestita nel settore pubblico per produrre più e meglio e pagare più e
meglio l’insieme dei dipendenti pubblici.

Non c’è il rischio che con
questi tagli una parte dei servizi saranno costretti ad andare sul mercato?

Non
è il mio obiettivo. Al contrario, voglio aumentare beni e servizi pubblici.

Applicando però logiche di
mercato nel settore pubblico?

Certo,
perché se la logica pubblica offre solo cattivi servizi, io voglio trasportare
l’efficienza del settore privato in quello pubblico.

Ma lo scandalo
della clinica privata Santa Rita, con pazienti operati inutilmente per
aumentare i contributi pubblici, non dovrebbe farci riflettere sui limiti della
logica di mercato, perlomeno in alcuni settori?

Il
problema non riguarda le logiche di mercato, ma i sistemi di controllo.

La Regione
Lombardia, però, ha un sistema amministrativo fra i migliori del Paese.

Ci
vuole più analisi e meno pregiudizi. Credo che beni e servizi pubblici non
debbano necessariamente essere prodotti da pubblici dipendenti, ma possono
essere anche offerti da strutture private in concorrenza fra loro.

Proprio quello
che fa la Lombardia in campo sanitario.

Il
sistema a volte funziona, altre volte c’è il fallimento del controllo.

Non sono rari,
però, i casi di fallimento del mercato.

Assolutamente,
c’è una letteratura infinita su questo tema. Ad esempio le public utilities nascono a fine Ottocento per un fallimento del
mercato. Il sistema ha funzionato fino a quando le municipalizzate, da
produttrici efficienti, non sono diventate luoghi di potere politico. Oggi le public utilities sono uno dei cancri del
sistema economico del nostro tempo.

Non sempre, a
quanto pare, privatizzare risolve i problemi. C’è, ad esempio, il caso di Acqua
Latina: la gestione dell’acqua concessa per trent’anni ai privati ha portato
aumenti delle tariffe del 300 per cento, un’inchiesta della magistratura e la sollevazione
della popolazione di Aprilia. E di casi del genere se ne contano a decine. Che
ne pensa?

C’è
anche il caso della multiutility bolognese Hera, che è di totale proprietà dei
governi locali. Il caso delle municipalizzate è proprio questo: fallimento del
mercato, periodo iniziale di grande efficienza e sistemi di potere subito dopo.
Ancora adesso i governi di destra e di sinistra sono stati incapaci di dare una
risposta.

Il decreto 112
ha riformato anche i servizi pubblici locali. Si stabilisce l’obbligo della
gara per l’assegnazione dei servizi, ma con molte “eccezioni”. L’ex ministra
Lanzillotta vi ha accusato di essere poco liberisti.

La
Lanzillotta non è riuscita a portare termine la sua riforma.

Voi ci siete riusciti?

Il
governo ci sta provando, ma non ho grande sicurezza che ci si riesca.

Confindustria ha affermato: lo
Stato faccia solo quello che i privati non possono fare da soli. Lei è
d’accordo?

Perché
devo commentare quello che dice Confindustria? Io ho fatto 90 giorni di lavoro
straordinario, che è contenuto nelle slide sul sito del ministero, mi chieda di
quelle. Chissenefrega di Confindustria.

 

A
questo punto il ministro si alza, apre la porta del suo studio e ci invita ad
andarcene.

Posted in politica | Comments Off on IL MINISTRO VA IN GUERRA. CIVILE.

Quando l’immaginazione fa brutti scherzi. di A. Burgio

http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=24887

 

[…] Insomma, la situazione è seria e raccomanda a ciascuno – compresi i
moderati affezionati alla democrazia borghese – di fare la sua parte. A
difesa non della «buona flessibilità», del libero mercato e della
sicurezza minacciata dagli «zingari». Ma dello Stato di diritto, della
Costituzione e del pluralismo politico. Rinunciando a replicare alle
europee il giochetto delle ultime politiche, quando ci si è
allegramente sbarazzati della sinistra sfruttando gli sbarramenti posti
da una legge-porcata.
Nel caso del fascismo ci fu un solo momento
in cui Mussolini si giocò il tutto per tutto. In occasione
dell’assassinio di Matteotti il regime vacillò per davvero, poiché fu
chiaro che minacciava anche i ceti medi e le fragili conquiste dello
Stato liberale. Poi tutto si richiuse, fino alla disfatta della guerra.
Riflettano dunque bene i nostri odierni «democratici», sempreché i nomi
in politica abbiano ancora un senso. Ma riflettano con altrettanta
attenzione, a sinistra, anche i pervicaci teorici dell’inutilità dei
partiti, gli eterni innamorati della «società civile». L’idea che si
possa contrastare la destra curando reti di relazioni «sul territorio»
e disertando il terreno istituzionale è figlia della stessa ideologia
che vorrebbe combattere. Non c’è una società autosufficiente, estranea
alla politica che la governa e immune per grazia divina dai suoi vizi.
Chi lo crede mostra di non saper rinunciare alle favole del
liberalismo. Predica una radicale alterità ma pone le premesse per una
stabile subordinazione. Noi ci fermiamo qui. Gramsci, che non faceva
sconti, parlò in proposito di «primitivismo».

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