Ici e federalismo: uno dei due è di troppo.

LO STRANO CASO DEI FEDERALISTI ANTI-ICI

di
Pietro Reichlin

22.04.2008 (http://www.lavoce.info/articoli/pagina1000377.html)

L’Ici
garantisce quasi il 60 per cento delle entrate tributarie dei comuni.
Eppure, il nuovo governo si accinge ad azzerarla, almeno sulla prima
casa. Certo, trasferire il carico fiscale dalla proprietà alle attività
produttive può procurare un vantaggio elettorale, ma rivela una
notevole dose di miopia, dei governi e degli stessi elettori.
L’abolizione dell’imposta è contraria ai principi di base del
federalismo, renderà i comuni meno virtuosi, avvantaggia soprattutto i
contribuenti più ricchi e sarà un ulteriore freno alla modernizzazione
del paese.

Si
può essere dei veri federalisti, come proclamano i politici della Lega
e il prossimo governo Berlusconi, e proporre l’azzeramento dell’Ici sulla prima casa?
L’imposta
garantisce quasi il 60 per cento delle entrate tributarie dei comuni.
La sua abolizione, anche se compensata da un corrispondente
trasferimento dallo Stato, limita notevolmente l’autonomia fiscale
dei governi locali ed espone i cittadini al rischio concreto di dover
pagare nuove tasse nel futuro. Il disavanzo pubblico non può essere
ulteriormente aumentato e i trasferimenti necessari a compensare
l’abolizione dell’Ici potranno essere coperti solo da un aumento di
qualche atro carico tributario o dalla riduzione di qualche servizio.
Come diceva Milton Friedman, non esistono “pranzi gratis”.

L’IMPOSTA PIÙ IMPORTANTE PER I COMUNI

Anche
se volessimo credere che i pranzi gratis esistano veramente, ci sono
altre considerazioni di cui un vero federalista dovrebbe tenere conto.
In primo luogo, la proposta potrebbe incentivare i comuni ad aumentare le imposte locali
pochi giorni dopo l’azzeramento forzoso dell’Ici. Se i partiti che
governano un comune sono riusciti a vincere le elezioni quando gli
elettori pagavano l’imposta, gli stessi partiti penseranno che, dopo
l’abolizione dell’Ici, gli stessi elettori saranno disposti ad
accettare l’aumento di qualche altro tributo. Di conseguenza, la
pressione fiscale complessiva potrebbe aumentare.
Uno dei capisaldi del liberalismo
è che i governi possano procurarsi risorse pubbliche solo mediante la
tassazione del reddito o della proprietà di cittadini-elettori. In
democrazia vince il partito politico che, a parità dei servizi offerti,
riesce a tassare di meno. Si tratta di un importante principio di
responsabilità ed efficienza. Ma se il livello di tassazione è
sottratto alla responsabilità dei governi, questo principio viene meno.
I governi possono spendere di più, e in modo ingiustificato, perché i
costi di queste spese ricadono su un’entità esterna (il governo
federale).
La proposta di Silvio Berlusconi di abolire l’Ici è un
classico esempio di cattivo federalismo. L’Ici è la tassa più
importante per i comuni. Senza l’Ici, i costi della cattiva politica locale sono trasferiti al governo nazionale.

PERCHÉ TASSARE GLI IMMOBILI

Forse
Berlusconi vuole abolire l’Ici perché ritiene ingiusta o inefficiente
la tassazione degli immobili? Che sia inefficiente tassare gli immobili
è contrario alla più elementare logica economica. Se tassi il lavoro o
le attività finanziarie, la gente lavora di meno e investe all’estero.
Se tassi gli immobili (ai livelli attualmente vigenti in Italia) gli
effetti negativi sull’offerta sono nettamente inferiori: una modesta
riduzione degli investimenti immobiliari e qualche cittadino che
trasferisce la residenza in un altro paese. In tutte le nazioni
sviluppate esistono tasse sui patrimoni, oltre che
sul lavoro e sui consumi. In Italia la pressione sui patrimoni è tra le
più basse tra i paesi Ocse: preferiamo tassare il lavoro e i profitti
d’impresa. Dovremmo fare il contrario: nel nostro paese lavorano troppe
poche persone e le imprese sono troppo piccole. Negli Stati Uniti,
la tassa sugli immobili serve ai governi locali per finanziare scuole,
infrastrutture e programmi sociali. Uno dei motivi principali per
delegare alle giurisdizioni locali la tassazione della casa, è proprio
il fatto che questo bene è meno mobile di qualsiasi altra forma di
ricchezza. Un’altra ragione per cui l’abolizione dell’Ici dovrebbe
suscitare l’opposizione di chi crede nel federalismo.
Va poi
ricordato che la Finanziaria del 2006 ha trasferito la gestione del
catasto ai comuni. La misura è evidentemente ispirata a una logica di
decentramento, con l’obiettivo di migliorare i servizi ai cittadini e
la qualità dei dati catastali. È vero che la Finanziaria 2007 ha
ridimensionato le competenze sull’aggiornamento degli estimi, lasciando
ai comuni soltanto un ruolo di collaborazione e riportando questa
funzione in capo allo Stato: ma quale incentivo avranno comunque a
svolgerla se la prima casa non sarà più tassata?
Berlusconi è un
politico abile. Ha capito che l’Ici è la tassa più odiata dagli
italiani. Non perché sia troppo elevata. L’ultimo governo Prodi ne
aveva già ridotto l’importo oltre il necessario. Forse perché l’80 per
cento degli elettori possiede una casa e solo il 60 per cento degli
italiani in età lavorativa svolge un’occupazione?
Trasferire il carico fiscale dalla proprietà alle attività produttive può procurare un vantaggio elettorale,
ma rivela una notevole dose di miopia, dei governi e degli stessi
elettori. L’abolizione dell’Ici è contraria ai principi di base del
federalismo, renderà i comuni meno virtuosi, avvantaggerà soprattutto i
contribuenti più ricchi e sarà un ulteriore freno alla modernizzazione
del paese.

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La sconfitta e la tv

http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=74747

 Piccoa nota: si chiama egemonia e si basa sul capitale. Di seguito l’articolo.

Compagni,
se avessimo guardato un po’ di più la televisione forse l’esito del
voto sarebbe stato un altro. Forse la sinistra a sinistra del Pd non
sarebbe scomparsa dalla faccia della terra, forse qualcuno avrebbe
capito prima la tumultuosa avanzata della Lega. Forse qualcuno avrebbe
capito che le radici profonde del berlusconismo sono finite tra di noi.
Bisogna sporcarsi le mani, diceva Don Di Liegro: e in qualche modo il
concetto si può applicare anche al mondo della televisione. Invece la
sinistra (tutta) ha la curiosa abitudine a dimenticarsi che Re Silvio
nasce, si nutre, cresce e trionfa con la televisione: guardando
industriali truppe di adolescenti vestite, dagli occhiali a sole in
giù, in maniera identica alle ragazze «troniste» dei programmi della De
Filippi, vedendo i cloni del Grande Fratello e i calendari delle
ragazze uscite dall’Isola dei famosi, lo capisci dove è andato il Paese
negli ultimi anni.

Ed è pure emblematico il fatto che la
televisione non sia cambiata di una virgola con il centrosinistra al
governo, incapace di mettere in piedi un progetto alternativo di tv per
gli italiani, che sapesse sposare la popolarità non dico con
l’intelligenza, che è merce rara, ma almeno con la dignità. Dalle sei
del mattino fino a notte inoltrata, il monopensiero televisivo ha
formato un mondo, una mentalità dominante, schiacciante. Da Festa
italiana a Verissimo, passando per Vespa a Cucuzza, senza considerare
Amici e l’incredibile video di «Meno male che Silvio c’è», sorvolando
sui giochetti milionari e il cinismo vallettopolaro di Buona Domenica,
abbiamo avuto un martellamento ininterrotto, durato anni e anni, che è
stato la principale fonte di informazione ed il principale nutrimento
intellettuale di milioni e milioni di italiani.

Si dirà: che
banalità, questa storia degli italiani manipolati dall’imperium
mediatico berlusconiano. Sarà anche una banalità, ma gli effetti si
sono avuti fin su nel salotto di Vespa, dove per altrettanti anni
degnissimi esponenti del centrosinistra (e, bisogna dirlo, in
particolar modo della Sinistra ora finita nel macero) si facevano
trattare come degli scolari messi dietro la lavagna da Bruno Vespa. È
lì che vedi l’effetto del berlusconismo, quando ti rendi conto di
quanto il mondo che noi definiamo «di sinistra» sia stato
culturalmente, oltreché politicamente, succube di questa destra.

Qualcuno ha già rilevato che lo spostamento in area leghista di
un’infinità di voti provenienti dalla sinistra è sintomo dello
smottamento della coscienza civile del paese, dato che
indiscutibilmente l’asse portante del leghismo sono «gli sghéi» e «il
négher», che deve tornarsene a casa sua anche se la casa non ce l’ha:
mettiamo questa immagine accanto a quelle scorse in abbondanza su
Retequattro relative al concorso di Miss Padania, shakeratele subito
dopo con le «meteorine» di Emilio Fede, con le incursioni di Fabrizio
Corona sui luoghi di (vari) delitti, e capite cosa si intende per
smottamento della coscienza civile.

Da parte della sinistra
c’è sempre stata una sottovalutazione drammatica della questione
mediatica. Laddove la destra ha condotto lucidamente e con estrema
determinazione la sua strategia in campo televisivo ed editoriale, la
sinistra è apparsa distratta, confusa, incerta, assente. Quello
berlusconiano è un modello culturale prepotente, pervasivo: va dal
rotocalco alla Chi, vero house-organ del berlusconismo e della cultura
dell’a-legalità, fino ai talk show politici, dalla curiosa logica dei
telegiornali che per malinteso senso dell’istituzionalità sorvolano
sugli aspetti più eclatanti dell’azione di Re Silvio, fino alla fatua
assurdità delle trasmissioni pomeridiane di gossip, che sposano
l’abiezione della cronaca con l’abito da sposa della velina tal de’
tali che si fa impalmare dal calciatore tal de’ tal’altro.

Visioni da incubo: vai nelle enclave operaie del nord e del sud, vai
nelle borgate, trovi milioni di ragazzini che sembrano usciti dallo
stampino delle televisioni Mediaset. Vai nei paesi di provincia e vedi
la pancia dell’italianità sprofondata nella religiosità spettacolare e
postmoderna che unisce le stimmate di Padre Pio alle trasmissioni in
tema miracolistico di Bruno Vespa. Vai nei supermercati e vedi le mamme
che inveiscono contro i prezzi («colpa dell’euro!») e che ti paiono
uscite dal pubblico di Forum, vai nelle periferie e vedi la paura degli
immigrati e ti ricordi che in tv le uniche straniere sono Aida Yespica
e Fernanda Lessa, vedi i salari sprofondati negli abissi e ti ritrovi
bombardato dalle televendite di Mediashopping… E poi ti chiedi:
dov’era la sinistra in questi anni?

rbrunelli@unita.it

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Una Sinistra unitaria e plurale resta la strada

…la destra più rozza dell’Europa occidentale s’è impadronita della mente
degli italiani, facendo del nostro un paese egoista e miope, nel quale
ognuno si è chiuso in quel che crede il suo interesse più immediato
mentre d’una democrazia decente più nulla importa (Rossana Rossanda)

 

 

Le
ragioni della sconfitta della Sinistra, le condizioni per la ripresa,
dalla news letter di Sinistra Democratica del 18 aprile 2008
 
(di Silvia Bandoli)

Sarà un pezzo più lungo di
quelli che scrivo di solito, me ne scuso. Ma il momento è serio. Il
Popolo delle libertà e la Lega stravincono le elezioni, il Pd resta
inchiodato a oltre nove punti di distanza , Berlusconi torna al
governo, la Sinistra Arcobaleno subisce una sconfitta storica e per la
prima volta non entra in Parlamento. Siamo stati penalizzati
dall’appello ossessivo al voto utile (tanti elettori di sinistra hanno
votato Pd illudendosi di poter battere Berlusconi ma il loro voto non è
servito) e dall’astensione di un’altra parte delusa dall’operato del
Governo Prodi appoggiato anche dalle forze di sinistra.

Questi due elementi però non spiegano una sconfitta tanto bruciante
maturata nell’ultimo anno, e che deriva dai nostri enormi e persino
incredibili errori.

Non abbiamo convinto gli elettori che avevano votato a sinistra nel
2006, non abbiamo conquistato nuove forze. La Sinistra Arcobaleno in
versione lista elettorale finisce qui. Quando nacque il Pd dicemmo che
era un terremoto politico, che nulla sarebbe più stato come prima. Che
nessuna delle forze della sinistra poteva da sola rispondere al vuoto
che si creava a sinistra del Pd: che era necessaria e urgente una
sinistra unitaria e plurale, un nuovo soggetto politico. Ma tra il
nostro dire e il nostro fare c’è stato di mezzo il mare.

Abbiamo sprecato un anno . Nonostante gli Stati Generali in
dicembre, dove tutti i dirigenti della sinistra politica si erano
dichiarati pronti a promuovere e a farsi “travolgere” da una
costituente della Sinistra , capace di risvegliare la partecipazione
alla politica, pochi giorni dopo tornavano a prevalere chiusure,
piccoli egoismi e nessuna costituente è partita nei territori. Siamo
così arrivati tardi all’appuntamento delle elezioni anticipate, solo
con una lista elettorale (la Sinistra Arcobaleno), senza una idea di
sviluppo di questo paese, senza un progetto chiaro e credibile per il
dopo elezioni, noncuranti di ristabilire un minimo di radicamento
sociale.

Abbiamo puntato tutto sul fatto che la sinistra rischiava di
scomparire, che bisognava difenderne l’esistenza. Questo appello non
poteva essere sufficiente perché per quanto un elettore di sinistra sia
sensibile al mantenimento di una Sinistra nel suo Paese egli vuole
capire come sarà, dove lo porta, quali politiche concrete propone per
cambiare in meglio la vita delle persone, quali principi mette a base
del suo progetto. E vuole anche democrazia nelle scelte programmatiche,
nella elezione dei gruppi dirigenti, nella definizione delle liste,
condivisione e partecipazione. Senza democrazia diventa asfittico
qualsiasi organismo politico (oppure diventa leaderistico e
personalistico come sono il PDL e il PD). Senza partecipazione siamo
stati percepiti come uno dei tanti ceti politici che cercano di salvare
loro stessi, e questo, per una sinistra che aveva denunciato la crisi
della politica e si era proposta di cambiarla nelle forme e nei modi è
risultata una contraddizione enorme. Se ci guardiamo intorno siamo,
paradossalmente, noi dirigenti della Sinistra Arcobaleno quelli che più
di tutti gli altri risultano travolti dalla pesante critica che
montava, spesso con analisi che io non ho condiviso, dalla cosiddetta
antipolitica. E a questo voglio aggiungere che l’aver dato una immagine
totalmente maschile è stato un limite serissimo che denuncia una cecità
profonda e mai superata.

Se sono vere anche solo una parte delle cose che ho scritto fin qui
è chiarissimo che siamo di fronte ad una mole enorme di problemi da
capire e da risolvere se vogliamo pensare ad una ripartenza. Per
ricominciare bisogna avere chiare le ragioni di una sconfitta,
rimettere mano in fretta alle pratiche politiche sbagliate che hanno
condotto a quegli errori, cambiare con la democrazia (e non con
sommarie rese dei conti) coloro che dirigeranno in futuro l’eventuale
progetto di rilancio. Ma bisogna anche dirsi con chiarezza e senza
prese in giro qual’è la proposta politica e il progetto di paese che
vogliamo rimettere in campo. Ho scritto tante volte della Sinistra che
vorrei e non potrei adesso scrivere cose diverse .

Vedo moltiplicarsi in questi giorni convulsi appelli di ogni genere
ma ciò che li accomuna è un dato chiaro: la richiesta di tornare ognuno
nei propri accampamenti e nei vecchi perimetri culturali. Il solito
ritornello che vuole i comunisti con i comunisti, i verdi con i verdi,
i socialisti con i socialisti..ripropone solo la congenita e maledetta
incapacità delle varie culture della sinistra italiana a stare insieme.
E’ una resa. Credo che ognuna di queste culture politiche per quanto
ben organizzata non possa, da sola, andare da nessuna parte. Temo che
andrebbe solo verso il suo esaurimento.

Sento anche che alcuni altri (pochi per fortuna) propongono di
trasferirci armi e bagagli nel Pd : mi pare anche questa una proposta
disperata e sbagliata. Se siamo uomini e donne di sinistra come
potremmo ritrovarci in un partito che , per sua stessa ammissione non è
e non vuole essere un partito di Sinistra?

Tutte le ipotesi che ho elencato rinunciano alla sfida che resta
intatta davanti a noi e che ci è caduta addosso quando è nato il Pd :
come e chi ridarà forza ad una sinistra in italia? Come ricostruirla? E
su quali basi? Dobbiamo tenere i nervi saldamente ancorati alla ragione
perché in un momento tanto grave i gesti istintivi e frettolosi possono
apparire più semplici, ma in genere sono sostenuti da poco pensiero e
rischiano di diventare altri errori che si accumulano a quelli già
fatti. Io penso che resti tutto intero davanti a noi l’obiettivo di una
sinistra unitaria e plurale perché ritengo maturo (anzi oramai quasi
scaduto) il tempo nel quale le culture più storiche della sinistra
possano convivere insieme a quelle più recenti e nuove (quelle nate
dall’ecologia scientifica, dal pensiero della differenza di sesso e
dalla libertà femminile, dalla critica alla globalizzazione). E del
resto quanti di noi interrogando la loro coscienza (e anche la loro
pratica politica quotidiana) potrebbero dirsi oggi solo e soltanto
comunisti, o solo socialisti o soltanto verdi? Siamo molte culture
(ognuno di noi ne raccoglie nel suo intimo molte più di quel che ci
diciamo) e insieme dobbiamo cercare di radicare nel paese una sinistra
unitaria e plurale. Che non può essere la somma di tanti partitini e
dei suoi gruppi dirigenti, ma un soggetto politico nuovo.

Per quel che attiene al progetto riparto anche qui da cose già dette :

“Se non si cresce non c’è nulla da ridistribuire. La crescita prima
di tutto e il Pil come totem” Questo è stato il tema della campagna
elettorale del PDL ma purtroppo è diventato anche il motivo dominante
di quella del Pd. La Sinistra parte da altri presupposti: è una forza
politica che vede il mondo e le sue contraddizioni globali e ha il
coraggio di dire al Paese cosa deve crescere e cosa invece deve
decrescere.

Devono crescere, ad esempio,i servizi immateriali, i trasporti di
merci su ferro e per mare e i mezzi pubblici per le persone, il
risparmio energetico e le energie rinnovabili, il salario e gli
stipendi, la sicurezza del lavoro e il suo ruolo sociale, l’agricoltura
non modificata, le reti idriche, l’edilizia di manutenzione e di
recupero , l’impresa sociale, i diritti.

Devono diminuire le rendite, le speculazioni edilizie e
finanziarie, l’uso di cemento che ci vede tra i primi Paesi nel mondo,
il trasporto di merci su gomma, la dipendenza dal petrolio, il numero
di automobili, la chimica più inquinante, le spese per armamenti (che
negli ultimi dieci anni toccano il picco). La chiave di volta è una
idea di sviluppo fondata sulla riconversione ecologica di settori
importanti della nostra economia. Una diversa concezione dei
consumi,dei cicli produttivi e delle merci. Lanciare allarmi sui
cambiamenti climatici e sui limiti delle risorse naturali non vale
nulla se si rinuncia ad indirizzare lo sviluppo verso altri fini, anche
attraverso indirizzi chiari e forti dello Stato in economia.

Il cambiamento del modello di sviluppo liberista è il nostro
obiettivo e la riconversione ecologica dell’economia è l’insieme di
riforme da mettere in campo per conseguirlo. Spesso la Sinistra non ha
saputo vedere quanta giustizia sociale passi attraverso la
riconversione ecologica, e ha sbagliato. Proviamo a pensare all’acqua.
Di quale giustizia sociale si può mai parlare in un mondo nel quale una
parte enorme di persone non ha accesso all’acqua e da qualche settimana
neppure al cibo minimo? Che l’acqua resti un bene comune, un diritto, e
che la gestione delle reti resti pubblica è una scelta precisa, di
sinistra, redistributiva, antiliberista. Il Pil misura in modo
indifferenziato la produzione di un Paese, non ci parla degli
squilibri. Il Pil non misura i diritti e non li garantisce, non
riequilibra le risorse, non ci parla di democrazia, non si cura della
sicurezza sul lavoro, non ci dice che stiamo consumando troppo
territorio agricolo, che cementifichiamo le coste (vera risorsa per un
turismo di qualità), che abbiamo il 40 per cento di acqua che si
disperde . Il Pil è un indicatore nudo e crudo.

Lo consideriamo, ma non è la bussola della Sinistra. A noi
interessa il benessere economico netto . Il disco rotto della crescita
indifferenziata gira sul piatto da molti anni. E da molti anni nulla di
buono cresce. Noi lavoriamo invece per l’aumento della qualità sociale
e ambientale dello sviluppo. Se queste (e molte altre ancora) sono
alcune delle nostre idee, dalle quali derivano progetti di cambiamento
che migliorano la vita delle persone, un altro nodo va sciolto al
nostro interno.

Si tratta del fatto se la Sinistra alla quale pensiamo debba avere
oppure no una cultura di governo. Che non vuole dire stare al governo.
Io provengo da una forza politica, il Pci, che aveva una solida cultura
di governo. Che sapeva misurarsi con tutti i problemi che i lavoratori,
i cittadini, gli insegnanti, i tecnici, le città come organismi
complessi presentavano. Si può stare all’opposizione con una solida
cultura di governo e ottenere risultati importanti, si sta spesso al
governo per anni senza ottenere alcun risultato e senza governare (la
Campania insegna).

Ebbene io penso che una sinistra unitaria e plurale per diventare
una forza popolare, radicata socialmente, presente sui problemi del
territorio debba avere una cultura di governo su tutti i temi che si
aprono davanti a noi in questo secolo così difficile. Nessuno escluso,
anche quelli che ci imbarazzano di più o che vedono una nostra
elaborazione assai scarsa. Parlerei di egemonia, una parola fondante
per la sinistra, ma non vorrei aprire un confronto filosofico.

Da ultimo le forme, i modi, le relazioni, le nostre parole. L’unica
forma per organizzare una forza politica di qualsiasi genere è la
democrazia. Nessuno accetta più, a sinistra di vivere senza democrazia.
Se la Pdl e il Pd hanno scelto il modello leaderistico e personale di
tanti uomini soli al comando io ritengo che la Sinistra non possa farlo
perché negherebbe in radice la sua natura. I modi sono quelli della
trasparenza delle scelte, della partecipazione e dell’ascolto, del
ritorno ad organizzazioni territoriali e a rete.

Le relazioni sono quelle tra le persone nelle quali si riconosce ad
ogni livello e si rispettano le differenze e la presenza e la libertà
di tutti e due i sessi. Le parole nuove ce le dobbiamo inventare tutti
e tutte insieme, e non sarà facile perché spesso, parlando quasi sempre
tra noi abbiamo assunto un linguaggio autoreferenziale e
incomprensibile a chi ci ascolta, ai giovani in particolare. Vedo in
questi giorni tentativi sommari di trovare capri espiatori, di
consumare rese dei conti. Inutili pratiche, vecchie come il mondo.

Chiarito il percorso che vorranno fare tutti coloro che non sono
disponibili a tornare dentro i recinti di prima allora democraticamente
e con un forte collegamento con i territori dovremo trovare tutta la
democrazia che serve per eleggere in modo trasparente chi dovrà portare
più responsabilità di altri. Vendola nella sua intervista di ieri ha
detto un nuovo gruppo dirigente che comprenda al suo interno anche una
nuova generazione, e io concordo. Dice anche che si potrebbe pensare ad
una direzione duale (un uomo e una donna), può essere e sarebbe un
fatto nuovo. Ma la condizione è che percorsi, programmi, persone
vengano scelte con la democrazia e con il voto. Abbiamo fretta da una
parte ma abbiamo anche un po’ di tempo. Rifondazione è alle prese con
un dibattito congressuale difficile che io rispetto e che credo vada
svolto. Ma pur seguendo con attenzione quella riflessione non è detto
che nel frattempo si debba restare fermi. Ripartiamo dal territorio,
dai gruppi unitari che si sono formati in tante realtà, dalle case
della sinistra, dalle associazioni che sono disponibili, dagli eletti
nei comuni, nelle province e nelle regioni. Costruendo attorno a loro
partecipazione , legame con i territori e discussione politica.
Riuniamoci, compagne e compagni, diciamoci tutto quello che pensiamo…e
poi, finite le critiche e le invettive, rimettiamoci in cammino.

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Registrazione Assemblea Nazionale de La Sinistra L’Arcobaleno, Firenze 19 Aprile

Registrazione Assemblea Nazionale de La Sinistra L’Arcobaleno, Firenze 19 Aprile.

Su radio radicale la registrazione completa di tutti gli interventi: 

http://www.radioradicale.it/scheda/252123/assemblea-nazionale-de-la-sinistra-larcobaleno 

 

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Quali rischi ci sono nel detassare gli straordinari?

Quali rischi ci sono nel detassare gli straordinari?
A
parte il merito della proposta, che analizzeremo dopo, è la forma in
cui viene presentata che svela il reale progetto del prossimo governo,
e lo si può leggere in una dichiarazione di Maurizio Sacconi, il quale
rivela candidamente che «la detassazione degli straordinari avverrà
indipendentemente dall’esistenza o meno di accordi sindacali». Insomma,
il futuro governo Berlusconi vuole creare un sistema che praticamente
incentiva a non contrattare, e spinge su istituti unilaterali come le
elargizioni «una tantum», gli straordinari non contrattati, gli assegni
ad personam. E’ chiaro che se l’accordo integrativo non è detassato, a
fronte di uno straordinario che lo è, l’impresa non avrà alcun
interesse a sedersi al tavolo per firmare accordi, ma proporrà una
tantum ai lavoratori, che si vedranno costretti ad accettare dato che
non hanno alternative. E’ successo di recente alla Tod’s di Della
Valle, avremo tanti casi simili.
Si cancellerebbe il sindacato…
Di
fatto sì, perché si offrono ai lavoratori pochi soldi, maledetti e
subito, a fronte della «fatica» di dover fare scioperi. Ma nessuno
spiega che la contrattazione collettiva offre tante tutele normative
che così, in questa contrattazione «individuale», spariscono del tutto.
Senza contare poi che dalla riforma degli straordinari sarebbero
esclusi milioni di lavoratori, dai precari agli stagionali,
diffusissimi in settori come il commercio, l’edilizia, l’agricoltura.
E’ un discorso che vale solo per il tipico lavoratore a tempo
indeterminato full time, e neanche ci guadagnerebbe granché: bisogna
fare 250 ore extra l’anno per avere circa 40 euro in più al mese,
secondo i calcoli del Sole24Ore su un operaio metalmeccanico. Mi mi si
deve spiegare che organizzazione del lavoro c’è in un’azienda dove si
fanno tutte queste ore. E poi ci sono rischi per la sicurezza e la
salute: dopo 8 ore in fabbrica o in un’infermeria ne faccio altre 2, o
4, come sarò alla fine del turno?

http://ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/19-Aprile-2008/art13.html 

 

Alcune aziende potrebbero concedere aumenti retributivi ai propri collaboratori camuffandoli da ricorso allo straordinario,
con un forte calo delle entrate fiscali e contributive a cui
occorrerebbe porre rimedio verosimilmente aumentando le tasse, vista la
genetica incapacità dei governi europei a tagliare la spesa. Inoltre,
la disponibilità di ore lavorative aggiuntive a buon mercato
rappresenta un incentivo alle imprese per non espandere l’occupazione
anche in presenza di accresciuta domanda dei propri prodotti e per non
compiere investimenti innovativi ad alta intensità di capitale
.
L’esito di simili decisioni, nel lungo periodo, sarebbe rappresentato
da una decelerazione del tasso di crescita della produttività francese,
e quindi nel declino del tenore di vita.

http://phastidio.net/2007/06/13/gli-straordinari-di-sarkozy/ 

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I meglio comunisti

Ora che la sinistra è fuori dal Parlamento
tutti a dire che è una storia finita. Ma quale storia? Dovendo proprio
parlare di compagni, SDM si diverte di più con quelli di ieri. Altra
pasta (dal Foglio del 19 Aprile)


“Mettetevi in testa che questo non è un Parlamento borghese che i deputati proletari devono combattere…”.
(Discorso di Palmiro Togliatti ai
parlamentari del Pci nel dopoguerra).

E adesso, chi a complimentarsi e chi a dolersi – con inevitabile nuovo
passo verso un sempre più innocuo modernariato. Dunque: i comunisti,
signora mia, i comunisti oddio non ci sono più… Dissolti tra le urne,
con gli operai passati dalla gloria della bandiera rossa alla mestizia
del fazzoletto verde, mentre il grottesco si fa sconfortante barricata
– “ci siamo occupati troppo di omosessuali e poco di operai”: senti che
razza di giustificazioni – e una stramba ultima deriva verso il nulla.
E’ tutto un lamento – dagli editoriali del Corriere agli opinionisti di
Casini – tutto un condolersi. I comunisti che non sono più in
Parlamento: mamma, e adesso? Giusto sui siti berlusconiani si trova una
certa becera soddisfazione – “Silvio, sei riuscito a fare quello che
gli Usa hanno provato a fare per cinquant’anni: fuori i comunisti dal
Parlamento italiano”: eroico. Tanta la partecipazione allo strazio
politico bertinottiano, tanti i complimenti allo sconfitto, che lo
stesso presidente della Camera, mentre il suo partito precipitava
dentro il pozzo aperto dalle urne, con un sorriso mesto sottolineava:
“Quando uno è defunto riceve molte lodi…”. Del resto, fatica inutile e
impegno sprecato. A dirla tutta – e molti lo dicono – i comunisti in
quell’aula non c’erano più già da anni e anni. Forse da venti, forse
dal tempo della svolta occhettiana, forse da qualche anno dopo e forse
persino da più di vent’anni. Ma quelli che erano i deputati del
glorioso Pci – l’originale accasato a Botteghe Oscure – quelli “tutti
presenti senza eccezione alcuna”, quelli che furono togliattiani e
berlingueriani, i severi funzionari e gli appassionati latinisti,
quelli scomunicati per davvero, con il pacco dei giornali sottobraccio
e l’Unità sopra a tutti, insomma: i comunisti come tradizione e
buonsenso volevano, beh, quelli mancano da un pezzo… Il resto è stato
per quasi quindici anni divertente parapiglia – il Monte Athos, la
quasi rissa ai cessi parlamentari tra un’intelligente trans e una
turbata forzista, i fischietti suonanti in aula, le canne minacciate in
cortile, i sottosegretari in piazza – forse anarchico socialismo, certo
dibattito perenne, comunque e sempre elevata convegnistica. I comunisti
delle Frattocchie – quelli che a volte fanno ancora drizzare per la
paura l’intero apparato tricologico del Cavaliere – purtroppo erano già
via da un bel pezzo.
Diciamo, i meglio comunisti: il classico, il dop e il doc. Tra i
compagni oggigiorno accasati nello Slow food si potrebbe dire: come le
uova di caviale rispetto a quelle di lombo. Altro tempo, altra vita,
altra storia. Per la quale è possibile agevolmente rintracciare qualche
struggimento, un po’ come lo stupore che prende quando succede di
tornare nel proprio paese dopo tanto tempo e dopo aver a lungo cercato
di fuggirne. Così erano? Così eravamo? In fondo, mica così male. A
Montecitorio, i deputati comunisti erano un’ordinata falange,
disciplinatamente votati alla causa. Che magari, per qualche ingenuità
linguistica potevano incorrere in curiose gaffe, ma sempre con il
chiaro profilo della lotta di classe all’orizzonte. Così, negli anni
Sessanta, il compagno onorevole Teodoro Bigi, da Reggio Emilia, invitò
con forza il governo a prendere provvedimenti a favore dell’industria
dei salumi presente in zona, prima che le contadine stremate fossero
costrette ad andare in città “a vendersi il culatello in piazza”. E non
meno fervida di prospettive politiche e di equivoci lessicali
contingenti – stando al resoconto contenuto in “Scusatemi ho il patè
d’animo”, di Guido Quaranta – risultò l’intervento dell’onorevole
Teresa Noce, che con durezza denunciò l’insensibilità sociale dei
governi democristiani, e in aula preannunciò che il Pci avrebbe
“raccolto i bisogni della gente”, li avrebbe sintetizzati politicamente
“in una Carta” e “portati a Montecitorio”. Ogni equivoco fu poi
chiarito. Il compagno che diventava onorevole – e ne ha dato splendida
testimonianza il compagno Peppone diventato senatore nell’apposito film
– viveva innanzi tutto un prolungamento della sua militanza. Non a
caso, e per decenni, fino all’inizio della dissoluzione degli anni
Ottanta, ben più dell’onorevole contava il segretario di federazione, e
persino Giorgio Napolitano, quando fu eletto a capo di quella di
Napoli, lasciò lo scranno di Montecitorio. L’obbedienza, per il
deputato del Pci, era una qualità apprezzata e una virtù richiesta.
Miriam Mafai, che di Giancarlo Pajetta fu a lungo compagna, nel suo
libro “Botteghe Oscure, addio” ha raccontato quello che successe ad
Aldo Natoli, deputato alla sua prima legislatura, nel ’56, quando
l’Urss invase l’Ungheria: “Venne chiamato da Giancarlo Pajetta che gli
chiese di tenere, alla Camera, un discorso a sostegno dell’intervento
armato sovietico. Natoli, che aveva intelligenza e carattere, rifiutò.
I due stavano discutendo, le voci si sentivano fin nel corridoio.
All’improvviso nella stanza arrivò, furibondo, Giorgio Amendola che,
rivolgendosi a Natoli, gridò: ‘Sei un traditore! Hai sbagliato partito!
Dovevi iscriverti al Partito liberale!’. Natoli uscì sbattendo la
porta. E in aula il discorso a difesa dell’intervento sovietico venne
pronunciato da Giancarlo Pajetta”.
La disciplina, virtù per eccellenza rivoluzionaria nel Pci
togliattiano, tra i comunisti parlamentari era pratica sacra e
indiscutibile. Quando, in qualche pagina interna dell’Unità, come è
successo per anni e anni, compariva il piccolo annuncio che tutti i
parlamentari, “senza eccezione alcuna”, erano tenuti alla presenza in
aula, senza eccezione alcuna quelli si presentavano. Rammenta Emanuele
Macaluso, che dell’Unità è stato direttore, del Pci dirigente, deputato
dal ’63 al ’76, senatore dal ’76 al ’92: “Quando nell’annuncio c’era
scritto ‘senza eccezione’, significava che tutti i deputati dovevano
presentarsi. Quando c’era scritto ‘senza eccezione alcuna’, voleva dire
che anche i membri della direzione del partito erano convocati”. Non
essendo un parlamento borghese da conquistare, né un bivacco per bande
rivoluzionarie, i comunisti togliattiani mostrarono subito una
considerazione quasi vicino alla sacralità per l’aula parlamentare.
“C’era un assoluto rispetto per quelle regole – sostiene Macaluso –
Togliatti, da presidente del gruppo, era attentissimo alle forme,
vestiva sempre di blu, non transigeva sulla disciplina. Nella sua
concezione il Parlamento non era una tribuna di propaganda, ma un luogo
di elaborazione politica e legislativa”. Ecco, questa faccenda delle
forme, e persino del vestiario, per il capo comunista ebbe da subito la
sua importanza. Raccontano che guardasse con un certo disagio la
cattivissima ineleganza (look, a quel tempo, era parola che nessuno
pronunciava e nemmeno sospettava) di molti compagni appena eletti,
subito dopo la guerra. A un importante dirigente, che continuava a
ostentare come un cimelio il vecchio cappotto che aveva usato in
montagna durante la lotta partigiana, un giorno chiese tra l’ironico e
l’irritato: “Facci sapere, compagno, se per caso il partito può fare
qualcosa per procurarti un nuovo paltò…”. A quelli che si atteggiavano
a rivoluzionari nell’aula di Montecitorio, ripeteva: “Questo è un
Parlamento conquistato da tutti, in primo luogo da noi; le distinzioni
non valgono”. Molti eletti comunisti, in realtà, alla fine degli anni
Quaranta non dovevano sembrare granché al loro capo. Qualcosa magari
era migliorato, tanto che Togliatti, osservando alcune delle nuove
deputate notò compiaciuto: “Finalmente abbiamo delle compagne che non
portano il 41 di scarpe” – ma per il resto una sola desolazione. Fu
proprio parlando del suo abbigliamento – blu scuro a pois con un
colletto di merletto bianco – e indicandola come modello agli altri
parlamentari, che fece il suo primo complimento alla Iotti: “La giovane
compagna di Reggio Emilia ha un vestito adeguato. Imparate da lei”.
Forse, il modo di portare le cose, più che le cose stesse. “Ricordo –
ha rievocato Nilde Iotti – che andavo in giro con una vecchia camicia
di flanella di mio padre, rivoltata, ritinta con i coloranti Sutter che
usavano allora, ridotta ad abito e portata non so quanti anni”.
C’era una preoccupazione: l’onorevole comunista non doveva marcare
troppo la sua condizione di compagno economicamente privilegiato. “E’
vero che metà dello stipendio andava al partito. Ma chi non era sposato
pagava anche di più, fino al 60 per cento – spiega Macaluso –. Una
forma di autofinanziamento, ma anche un modo di essere del
parlamentare, che non doveva avere una disponibilità di denaro molto
superiore a quella del funzionario di partito. Non doveva collocarsi
economicamente troppo in alto”. Ricorda ridendo Miriam Mafai: “C’era un
deputato siciliano che pose al partito un problema: lui non aveva una
famiglia né, ovviamente, a quei tempi, dei figli. Ma aveva un grosso
cane. ‘Mangia più di un bambino’, tentò di impietosire
l’amministrazione del partito. Inutilmente”. I deputati comunisti,
soprattutto quelli delle prime legislature, si accampavano in alberghi
modesti, due per camera, in case di compagni. “Quando arrivai a Roma –
il racconto di Nilde Iotti – il gruppo parlamentare indicò un certo
numero di alberghi dove alloggiare. Io, insieme al mio compagno di
Reggio Emilia Silvio Fantuzzi, scelsi il Santa Chiara, un vecchio
albergo dietro al Pantheon, vicinissimo a Montecitorio”. C’erano poi le
case dal partito, ovviamente. Come quelle, famosissime, di via Pavia.
Erano riservate a funzionari di un certo grado, e alcuni di loro più
tardi diventarono parlamentari, da Fernando Di Giulio a Ruggiero
Grieco, da Rita Montagnana a Teresa Noce. “Naturalmente – ha scritto la
Mafai – nelle case del partito anche i portieri erano iscritti al
partito e, a maggior ragione, lo erano le donne di servizio che, se
dovevano lavorare nelle famiglie dei compagni della Direzione o della
Segreteria, venivano scelte con particolare oculatezza dalle
federazioni di provenienza”. Si capisce: questa edificante vita
pubblica nascondeva anche scontri interni, lacerazioni, rapporti
conflittuali o magari velati rapporti amorosi, che anche quelli, a quel
tempo, dovevano passare per il vaglio del partito, visto che “l’amore è
una cosa seria, una conquista che si realizzerà a pieno soltanto con la
vittoria del socialismo”, argomentava il compagno Edoardo D’Onofrio: il
soffio del partito sotto le lenzuola del del militante. Ovviamente,
dirigenti e parlamentari erano molto più elastici (per fortuna), nelle
loro relazioni amorose, di quanto venisse insegnato ai compagni di base
(per sciagura). Non solo Togliatti e la Iotti, ma anche molti altri,
compreso Luigi Longo. E fece scandalo Umberto Terracini che, da
presidente dell’Assemblea costituente, si presentò a una cerimonia con
la “concubina”, la donna con cui felicemente conviveva.
Ma alla fine, il campo specifico di lotta del deputato comunista era
l’aula parlamentare. Appunto sacrale, secondo gli insegnamenti
togliattiani – e di tutti quelli a seguire – ma che pure vide momenti
di forte scontro, contrapposizione, ostruzionismo: come al tempo del
Patto atlantico o della “legge truffa” o, infine, della battaglia sul
taglio della scala mobile deciso dal governo Craxi. Liti memorabili
come quella del giugno ’48, quando il comunista Fausto Gullo attaccava
gli elettori democristiani (“beghine”, “suore sepolte vive”,
“paralitici”) e i democristiani, nella persona dell’onorevole Tomba,
replicavano sullo stesso tono (“pregiudicato”, “sgualdrina”). Le
cronache dicono dell’onorevole Tomba finito in infermeria e di due
deputati comunisti soccorsi con il Lysoform. Ma un parapiglia come al
tempo della “legge truffa” non si vide mai più in seguito. Pietro
Secchia voleva che i deputati comunisti abbandonassero l’aula,
Togliatti si oppose. Si trattò, secondo Pietro Ingrao, di un “misurato
ostruzionismo che tenne aperta la lotta in Parlamento (tra Senato e
Camera) per circa un lungo semestre” che “appare assurdo e insensato,
se non si afferrano il suo combinarsi e prolungarsi nel territorio”.
Però in Parlamento. “Il Parlamento stava nel nostro cammino proprio
perché cercavamo, tentavamo di costruire luoghi e forme di potere
pubblico, aperti alla volontà delle masse e capaci di incidere
sull’agire dello stato”. E proprio il deputato Ingrao, nell’aula di
Montecitorio, fu protagonista del gesto che divenne simbolo di quei
mesi di lotta. Mentre la Camera discuteva, lui uscì per via del
Tritone. C’erano scontri tra la polizia e i manifestanti comunisti.
Ingrao interviene in difesa di un gruppo di dimostranti. “A domanda,
tirai fuori come risposta il tesserino di deputato. Il poliziotto
furente che mi stava di fronte rispose con una secca randellata sulla
mia testa”. Torna a Montecitorio. “In aula stava parlando un compagno:
aspettai in Transatlantico che finisse (…) Poi entrai in aula con quel
fazzoletto insanguinato sulla fronte a raccontare ciò che accadeva in
quella cupa notte romana”. Così, “il dramma parlamentare accendeva
nuovamente gli animi nel paese”.
Ma in generale, per fortuna, era tutto più calmo e ordinato. Dai
deputati comunisti, rammenta Enzo Roggi, giornalista parlamentare
dell’Unità negli anni Sessanta, veniva “un attento grigiore”, la noia
dello studio di tutti i trucchi parlamentari, “come si può conoscere la
strada di casa”, un “impegno quasi pedagogico” che al peggio poteva
produrre interventi in aula come questo, riportato nel libro di
Quaranta: “Da un punto di vista concretamente organico, cioè da un
punto di vista organicamente concreto, cioè guardando le cose con
organica concretezza…”: se non moriva prima di noia, magari la causa
del socialismo faceva pure qualche passo avanti. Ma l’onorevole
comunista non doveva mai abbassare la guardia. In aula, allora: lì il
pubblico confronto, la prova di forza, la possibilità di assestare un
colpo (politico) all’avversario. Naturalmente, qualcuno doveva curare,
ordinare, tenere d’occhio la faccenda. La questione fu a lungo nelle
mani di un parlamentare che è diventato col tempo un vero e proprio
mito: il compagno Mario Pochetti da Palombara Sabina, segretario d’aula
del gruppo. Un gran tipo, il compagno Pochetti. Così esperto di
strategia parlamentare, di trucchi e di regolamenti che una volta,
all’inzio degli anni Settanta, Sandro Pertini, presidente della Camera,
di fronte a un’aggrovigliata faccenda regolamentare sbottò: “Vediamo di
chiedere a Pochetti, che se ne intende di più…”. Nella funzione che il
parlamentare svolgeva nel Pci, il ruolo di Pochetti era centrale, come
del resto quello di una sua altrettanto risoluta collega della Dc,
ricorda Macaluso, “e i democristiani temevano più lei che De Gasperi e
Fanfani”. Tra l’aula e il Transatlantico, in certi frangenti, la
funzione di Pochetti superava quella del segretario. Una volta fece
venire a votare Enrico Berlinguer con la febbre, appena tornato da una
viaggio da Mosca. Dopo un lieve ritardo pubblicamente osò una ramanzina
al mitico segretario del Pci: “Tu qui dentro sei un deputato come tutti
gli altri, e un ritardo va giustificato” – e con il dito gli indicò
seccamente l’ingresso dell’aula. Raccontano che ad Alfredo Reichlin,
splendido retore ma forse non accanito frequentatore di Montecitorio,
disse un giorno: “Compagno, tu sei come Severino Gazzelloni: vieni, fai
l’assolo una volta l’anno, prendi il nostro applauso e te ne vai”. Gran
cultore del Belli, e dunque pacifico teorico della convinzione “io so’
io, e voi nun siete un cazzo”, con pugno di ferro e granitica
organizzazione instradava le truppe comuniste. Una carica monocratica,
praticamente sconosciuta all’esterno, E siccome, spiegava Pochetti,
“può succedere la qualunque”, dieci deputati comunisti, pescati ogni
volta in ordine alfabetico, erano comandati in aula anche di lunedì o
di venerdì, quando assolutamente nulla succedeva. “Vigilanza
democratica”, era l’accorto mandato. E siccome “la qualunque” può
appunto succedere, prima delle ferie il compagno Pochetti saggiamente
raccoglieva, su un foglio bianco, la richiesta di convocazione urgente
della Camera da parte del gruppo comunista. Richiesta, per dire, di una
certa utilità quando il nazista Kappler scappò dal Celio in pieno
ferragosto. Una meravigliosa battuta Pochetti la riservò al non
giovanissimo capo democristiano Remo Gaspari, che un giorno si presentò
in aula con il braccio ingessato: si era infortunato inaugrando con una
partita a tennis un campo sportivo al suo paese. Gaspari forse si
aspettava un applauso per lo spiccato senso del dovere, invece nel
silenzio assoluto si ode la voce di Pochetti: “Suotr, ne ultra
crepidam!” (Calzolaio, non andare oltre la scarpa!). Ecco, il latino
era largamente praticato nel gruppo comunista, da alti dirigenti fino
ai deputati di periferia. E’ rimasto famoso l’urlo di Alessandro Natta
contro un parlamentare che si affannava a descrivere “l’aiter della
legge”. “Bestia: iter, è latino, bestia!”, urlò il capogruppo
comunista. E quello: “Scusate il lepsus…”. Personaggio fondamentale del
gruppo del Pci per decenni fu Giancarlo Pajetta, fenomenale battutista.
Come quella volta che in aula erano rimasti solo lui (che sbrigava la
sua corrispondenza) e un deputato monarchico che parlava. Oltre a un
vicepresidente e ad alcuni stenografi. E Pajetta, avviandosi verso
l’uscita saluta l’ultimo collega rimasto, che insiste a tirare avanti
col discorso: “Poi, quando finisci spegni la luce!”. Tutt’altre storie.
Finite chissà come e quanti anni fa. Magari con quel gesto di Nilde
Iotti, che con fare imperioso costringe tutti i suoi compagni
pidiessini – indecisi e restii a farlo – ad alzarsi per salutare Irene
Pivetti, salita sullo scranno più alto al suo posto: la Gran Signora di
Montecitorio salutava così la sua Istituzione. Che un giorno, nella
direzione del Pci, aveva difeso anche contro Berlinguer. Era il tempo
dello scontro sulla scala mobile. Il segretario pose il problema di
certe questioni regolamentari sul dibattito in corso, visto che che a
volte la presidenza aveva dato ragione al governo. Ricorda Macaluso:
“La Iotti si alzò e disse: se volete qui la mia presenza, le questioni
della Camera si discutono alla Camera”. Nessuno aprì più bocca, dopo le
parole della compagna presidente. Anzi: del presidente. Perché, come la
Iotti spiegò, “la presidente sarebbe una forzatura grammaticale non
ammessa del resto neppure dalla voce latina da cui deriva…”. Davvero:
un altro tempo e un’altra tempra.

di Stefano Di Michele

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Mazinga: UDEUR! Il bellissimo inno dell’U.d.e.u.r.

http://www.macchianera.net/2006/04/04/addaveni_udeur.html

 

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Spudorati?

Finalmente qualcuno lo dice. Dove berti.net non è arrivato nei due mesi di campagna elettorale ci arrivano gli opinionisti de l’Unità qualche giorno dopo le elezioni.
Insomma spudorati loro o spudorato lui?

 

[…] Che fare? È possibile rimettere le cose al loro posto? E rivolgo la
domanda prima di tutto a Veltroni. Il quale ha tentato di realizzare in
Italia l’operazione riuscita a Blair in Inghilterra. Il leader
laburista, senza cambiare nome al partito, ha adottato il liberismo
della signora Thatcher: molti elettori conservatori stanchi e delusi di
un lungo e ormai inefficiente governo conservatore (erano finiti i
tempi ruggenti della signora!) hanno sposato il liberismo del giovane e
brillante Tony.

In Italia – questo è stato l’handicap di
Veltroni – il governo che ha deluso non è stato diretto dall’avversario
Berlusconi, ma dall’amico Prodi. E Veltroni non ha potuto scrollarsi di
dosso l’impopolarità di quel governo. E il suo disegno non ha avuto
successo. Se ha imparato la lezione il leader del Partito democratico
deve guardare dalla sua parte, deve guardare a sinistra, a quel
progetto tante volte annunciato e mai neanche avviato di costruire
anche in Italia un grande partito socialista di tipo europeo e se
possibile più avanzato e moderno di quello europeo. […]

http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=74753 

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La società non ha bisogno di nuovi apparati

 
 
La sinistra non c’è più
E’ un concetto vuoto
Il compito è culturale
 

di Franco Berardi Bifo
La bufera ha spazzato via i detriti del ventesimo secolo.
Non
c’è di che rallegrarsi. Il Novecento fu un secolo tremendo di violenza
e di guerra, ma aveva per lo meno un orizzonte al quale guardare, una
speranza da coltivare. Oggi non vi è più nessun orizzonte, solo paura
dell’altro e disprezzo di sé. Questo è l’argomento del quale dobbiamo
occuparci, non del risultato delle elezioni.
La scomparsa della
sinistra e la vittoria definitiva dei razzisti e della mafia è un fatto
prevedibile e previsto. La sinistra ha preparato accuratamente questo
rovescio. Timorosa di ripetere l’errore del 1998 ha accettato tutto
quello che la Confindustria e la Banca Europea hanno imposto, e il
risultato è quello che ora vediamo. Come se due errori di segno
contrario potessero mai fare una cosa giusta.
Gli operai hanno
rifiutato di votare (come non capirli?) oppure hanno votato per i
peggiori tra i loro sfruttatori (come non compatirli?).
Ma
occuparci delle elezioni passate o di quelle future sarebbe pura
perdita di tempo. La democrazia rappresentativa da tempo non ha più
niente da dare. Ora ha chiuso ufficialmente i battenti.
Olindo e
Rosa hanno vinto le elezioni politiche. E allora? Si tratta di curare
la malattia, se ne siamo capaci, non di restaurare vecchi apparati.
Dobbiamo occuparci della malattia psichica che si manifesta in Italia
con l’emergere di un esercito maggioritario di zombie assetati di
sangue.
E’ già successo in Francia qualche tempo fa. La vittoria
di Sarkozy è stata accompagnata dalla scomparsa della sinistra dalla
scena politica parlamentare. Perché disperarsi se ora accade in Italia?

La sinistra, che avrebbe dovuto essere strumento di organizzazione
dell’autonomia della società dal capitale, nel corso del Novecento si è
trasformata in un ceto parassitario che succhia il sangue dei movimenti
per tradirli in maniera sistematica.
Nella versione bolscevica
quel ceto politico ha massacrato le avanguardie intellettuali e
operaie. Nella versione socialdemocratica ha venduto le conquiste
operaie in cambio di potere economico per le burocrazie. Nella sua
attuale versione americanizzata si illude di poter condividere il
potere con gli aguzzini. Non si accorgono gli americanoidi
all’amatriciana che l’America dei loro sogni sta sprofondando,
sconfitta dalla resistenza regressiva dei popoli islamici, e sommersa
da una recessione senza vie d’uscita. L’Occidente sprofonda in una
recessione che annuncia guerra civile planetaria. Questo lo scenario,
questo l’orizzonte.
Ora la società non ha più difese, in compenso non c’è più il ceto politico che la parassitava.
Lasciamo
perdere l’idea di ricostruire la sinistra, perché la sinistra non ci
serve. E’ un concetto vuoto, che si può riempire soltanto di passato.
La
società non ha bisogno di un nuovo apparato di mediazione politica. Non
ci sarà mai più mediazione politica. Il capitale ha scatenato la guerra
contro la società. Non possiamo far altro che adeguare ad essa i nostri
strumenti e i nostri linguaggi.
Non possiamo combattere quella guerra sul piano della violenza, per la semplice ragione che la perderemmo.
La
società deve costruire le strutture della sua autonomia culturale:
dissolvere le illusioni che sottomettono l’intelligenza al lavoro al
consumo e alla crescita, curare lo psichismo collettivo invaso dai
veleni della paura e dell’odio, creare forme di vita autonoma
autosufficiente, diffondere un’idea non acquisitiva della ricchezza.
Non abbiamo altro compito. Ed è un compito gigantesco.

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Indicazioni programmatiche per il futuro (Viva i Compagni della nuova Sinistra extra-parlamentare)

CINGHIATE IN FACCIA – Ha reagito violentemente, un elettore di
Modena, al trillo di un cellulare lasciato fuori dalla cabina da un
altro votante: la suoneria infatti, un motivetto inneggiante a Forza
Italia, non gli è piaciuta e perciò si è sfilato la cintura e ha
colpito il proprietario del telefono al volto. Il malcapitato lo ha poi
denunciato ai carabinieri.

http://www.corriere.it/Politica/2008/elezioni08/episodi_strani_elezioni_28675214-0a4e-11dd-bdc8-00144f486ba6.shtml 

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