25 Aprile sempre!

Fui affascinato soprattutto dal Che fare?, dove il partito,
diventato il centro di un grande movimento di popolo, inviava i suoi
ambasciatore in tutti gli strati della popolazione, respingeva ogni
tendenza operaistica a chiudersi in una politica “tradeunionistica” di
difesa degli interessi immediati e particolari di categoria. Mi colpì
l’affermazione di Lenin che il socialismo era l’erede e il continuatore
delle più alte tradizioni del pensiero moderno, della economia politica
inglese, della filosofia tedesca e dell’illuminismo ed utopi­smo
francese.
Non avevo letto nulla di Gramsci. I “temi” sulla
questione meridionale, pubblicati nel numero 1~ del 1930 di Stato
Operaio, giunsero a Napoli dopo che io mi ero già iscritto al partito.
Ma il riconoscimento della necessità di un’alleanza rivoluzionaria tra
classe operaia del Nord e contadini del Mezzogiorno era un tema che,
sottolineato con forza da Sereni, veniva particolarmente accolto e
compreso da chi, come me, poneva già la questione meridionale come
problema politico essenziale dell’intera nazione.
Dall’altra parte, quanto ho già raccontato sull’inesistenza di una
opposizione valida al fascismo che non fosse quella comunista, mi
confortava sulla validità della scelta che mi accingevo a fare. O
l’atesismo di Croce, il rinchiudersi nello studio nell’accettazione
pratica del regime, e quindi nella rinuncia alla lotta, o l’impotenza
rissosa degli antifascisti emigrati, perduti nelle loro vane
vociferazioni. Perché il PCI era il solo a battersi, a prezzo di tanti
sacrifici? Perché era un partito internazionalista, forte quindi del
sostegno (e della indispensabile disciplina) di un grande movimento
mondia­le. Perché gli operai, i braccianti e i contadini erano spinti,
dalla necessità di vita, a porre rivendicazioni concrete in contrasto
con i padroni e con il regime che sosteneva i padroni. Trovavo nei
fatti la conferma della validità della affermazione di Gobetti, essere
il pro-letariato l’unica classe portatrice di avvenire.
(da «Una scelta di vita», Giorgio Amendola)

La prima giornata di Torino liberata è stata ancora una giornata di lotta.
Torino non ha potuto abbandonarsi a festose manifestazioni di giubilo,
ma è restata, vigile, in armi. I partigiani e le SAP hanno continuato
la pulizia della città, rastrellando numerosi “cecchini” fascisti ed
eliminando gli ultimi disperati focolai di resistenza. Per tutto il
giorno, nel centro della città, non è cessato il crepitio delle
mitragliatrici.(…)
Il criminale Srarnek non ha ancora innalzato bandiera bianca ed ha
respinto l’intimazione di resa, che gli è stata rivolta. In altri punti
del Piemonte vi sono ancora nuclei e forze tedesche, non numerose, ma
ben armate, che tengo- no ancora e che tentano ancora di sottrarsi o di
ritardare momento della resa e dell’annientamento.(…)
La lotta continua ancora, dunque. Ma le condizioni son cambiate Le
forze nazionali sono ormai saldamente padrone della situazione. Torino
è il centro di direzione e d organizzazione del movimento di
liberazione di tutto il Pie monte. Il CLNP esercita la sua funzione di
governo coordina e dirige tutta la guerra. I tedeschi e gli ultimi
gruppi di banditi neri sono ormai nelle condizioni di fuori legge. Le
condizioni della lotta si sono ormai capovolte. I patrioti potevano,
ieri, contare sull’appoggio di tutta la popolazione ed è grazie a
questo appoggio che essi hanno vinto. nazifascisti sono ormai ridotti
nella posizione di banditi in fuga, braccati da tutte le parti, e che
bisogna abbattere senza pietà.
La mobilitazione e la salda unità di tutto il popolo sono, ancora oggi,
le condizioni essenziali per porre rapidamente e vittoriosamente
termine alle ultime operazioni. Accanto alle valorose formazioni
partigiane sono tutti i lavoratori che devono dare la caccia ai
disperati fascisti dell’ultima ora, che devono rastrellare e pulire i
quartieri, che devono consegnare ai tribunali del popolo le spie, i
provocatori, i delinquenti che devono essere giustiziati.
Pulizia pronta e radicale, è questa la condizione perché si possa
iniziare la nuova vita democratica e ci si possa accingere al duro
lavoro della ricostruzione.
Pietà l’è morta. E’ il grido che abbiamo lanciato quando più dura era
la lotta, quando i nostri migliori cadevano assassinati. E’ la parola
d’ordine del momento. I nostri morti devono essere vendicati, tutti. I
criminali devono essere eliminati. La peste fascista deve essere
annientata. Solo così potremo finalmente marciare avanti.
Con risolutezza giacobina il coltello deve essere affodato nella piaga,
tutto il marcio deve essere tagliato. Non è l’ora questa, mentre non
sono ancora sepolti i caduti della battaglia liberatrice, di
abbandonarsi ad indulgenze, che sarebbero tradimento della causa per
cui abbiamo lottato.
Pietà l’è morta.
(da «Lettere a Milano», Giorgio Amendola – L ‘Unità – 29.04.1945)

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