RESISTENZA OGGI. Ma prima facciamo i conti con maschilismo e omofobia.

RESISTENZA OGGI
Ma prima facciamo i conti con maschilismo e omofobia

Antifascismo: come non farla restare una parola vuota, ma viva, attuale?
Rivisitiamo criticamente la storiografia ufficiale. All’indomani della Liberazione,
ha voluto dare un’idea normalizzata della lotta contro il nazifascismo cancellando
il vero ruolo di donne, lesbiche, gay e occultando le discriminazioni che i regimi
avevano attuato nei loro confronti. Se ne parla a Verona, grazie al Circolo Pink

Elena Biagini (da Liberazione di oggi)
«Poi siamo andati a Torino. Io non ho potuto
partecipare alla sfilata, i compagni non mi hanno lasciata andare.
Nessuna partigiana garibaldina ha sfilato, ma avevano ragione loro. Mi
ricordo che strillavo: "Io vengo a ficcarmi in mezzo a voi, nel bello
della manifestazione! Voglio vedere un po’ se mi sbattete fuori!". "Tu
non vieni, se no ti pigliamo a calci in culo! La gente non sa cos’hai
fatto in mezzo a noi, e noi dobbiamo qualificarci con estrema
serietà!". E alla sfilata non ho partecipato: ero fuori ad applaudire.
Ho visto passare il mio comandante, poi ho visto Mauri, poi tutti i
distaccamenti di Mauri con le donne che avevano insieme. Loro sì che
c’erano. Mamma mia, per fortuna che non ero andata anch’io! La gente
diceva che erano delle puttane».
Questa le parole di Tersilla, nome
di battaglia Trottolina, sulla manifestazione delle brigate partigiane
che si svolsero a Torino per celebrare la liberazione nel 1945, una
delle testimonianze raccolte in La resistenza taciuta , il testo dal
titolo-manifesto che Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, pubblicarono
nel 1973, aprendo la lunga strada della de-virilizzazione
dell’antifascismo. Così inizia l’antifascismo dell’epoca repubblicana:
all’insegna del perbenismo che deve rimettere tutto a posto, riportare
le donne in casa, a fare le massaie, subordinate all’antico ordine
patriarcale, dopo che alcune di loro avevano combattuto in montagna,
molte avevano contribuito a sconfiggere "la carogna fascista" con forme
di resistenza civile, tutte erano uscite dalle mura domestiche, avevano
acquistato visibilità sociale. «La mobilità/visibilità delle donne, che
in tutta Europa passano ore davanti ai negozi e alle rivendite
clandestine, attraversano le città e percorrono le campagne in cerca di
cibo e di ricoveri di fortuna, prendono treni per sfollare, dopo
l’occupazione peregrinano tra comandi tedeschi e fascisti per conoscere
la sorte di mariti, fratelli e figli, chiedendone la liberazione», come
scrive Anna Bravo in In guerra senza armi (Roma, 1995).
Come la
nascente repubblica porta via le armi ai e alle resistenti per fermare
il processo rivoluzionario, così si assiste anche ad una forte
restaurazione dei costumi, ad una rinnovata ruolizzazione di genere
della società.
Dopo la fine della guerra, la memorialistica si è per
lo più limitata a celebrare alcune icone femminili, mentre le opere
storiografiche di sintesi, all’unisono, hanno trattato le donne come
una categoria meritevole ma indistinta ed hanno definito quello delle
partigiane un "contributo", come si trattasse di una convergenza
momentanea, non di una appartenenza vera e propria delle donne al
movimento resistenziale. La partecipazione delle donne alla Resistenza
non è stata cancellata ma svuotata del suo carattere politico, secondo
un processo che la pioniera italiana della storia delle donne Pieroni
Bortolotti sintetizza in maniera efficace nel seguente passo: «Le donne
della Resistenza erano sempre mamme e spose di casa, capaci di un
doppio lavoro, di un doppio dovere, e se non si parlava di una doppia
morte, era proprio soltanto perché al mondo si muore – perfino le donne
– una volta sola». Fino a pochi anni fa le celebrazioni ufficiali hanno
costruito una figura stereotipata della resistente, di cui è simbolo la
protagonista di L’Agnese va a morire di Renata Viganò, a discapito di
tutte quelle donne che, nella loro partecipazione politica e armata, si
sono distaccate dal modello femminile precostituito dalla ruolizzazione
di genere, dalla tradizione cattolica e patriarcale.
Non è
probabilmente un caso, in questo quadro, se le testimonianze di
resistenti lesbiche o gay sono sparute e poco conosciute: negli anni
Cinquanta il perbenismo del Pci ha certamente contribuito a far tacere
anche al proprio interno chi già nel paese doveva fare i conti con una
società fortemente normalizzata dallo Stato e dalla chiesa.
Allo
stesso modo per anni, le vittime della violenza nazi-fascista sono
state scelte: solo triangoli rossi dei prigionieri politici e le stelle
di David hanno trovato posto nelle celebrazioni ufficiali mentre sono
sempre stati trattati come secondari i triangoli verdi dei criminali
comuni, viola dei testimoni di Geova, i blu di migranti e apolidi, e
addirittura taciuti, perché imbarazzanti, i triangoli neri di asociali,
"malati di mente", mendicanti, prostitute e di lesbiche in alcuni
campi, marroni di zingari e rosa degli omosessuali.
In questo
contesto è particolarmente interessante l’esperienza del Circolo Pink
di Verona che, in un territorio vessato da rigurgiti fascisti, tensioni
razziste e violenza integralista, spinge dal 1997 fino al 2000 per
portare nelle celebrazioni ufficiali lo striscione "Uccisi dalla
barbarie, sepolti dal silenzio" che dia dignitosa visibilità a
lesbiche, omosessuali e transessuali e con loro a sinti, rom, barboni,
migranti, altri gruppi particolarmente "scomodi" nella città scaligera,
perennemente soggetta ad azioni di "pulizia" operate da giunte locali
per lo più di destra ma anche di centro sinistra.
La storiografia
accademica nel nostro Paese, ancora oggi, per lo più tace rispetto alla
misoginia come tratto connotante dell’ideologia e della repressione
fascista, anche se studi di genere importanti hanno chiarito che «la
dittatura mussoliniana costituì un episodio particolare e distinto del
dominio patriarcale. (…) Le concezioni antifemministe furono parte
integrante del credo fascista al pari del suo violento antiliberalismo,
razzismo e militarismo» (Vittoria De Grazia). Il silenzio sulle
connotazioni omofobiche del fascismo è stato rotto solo negli ultimi
anni da testi come Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità
nell’esperimento totalitario antifascista di Lorenzo Benadusi, La città
e l’isola. Omosessuali al confino nell’Italia fascista , di Giartosio e
Goretti e Fuori della norma. Storie lesbiche nell’Italia della prima
metà del novecento a cura di Milletti e Passerini. Ma se l’analisi
dell’omosessualità maschile sotto il fascismo ha raggiunto una certa
sistematicità (tanto da comparire la voce nel dizionario del fascismo),
tutt’oggi l’unico testo sulla storia delle lesbiche italiane, peraltro
non focalizzato sul fascismo, rimane il succitato Fuori della Norma .
Ma
tutto questo ovviamente non riguarda solo l’impostazione di una
corretta conoscenza storica ma condiziona e plasma l’idea che oggi
abbiamo di antifascismo, o meglio, cosa significa praticare
l’antifascismo, renderlo vivo, attuale, performante. «Parlare di
antifascismo e di antirazzismo senza valutare gli attacchi subiti dagli
orientamenti sessuali, dalle identità di genere e dalle donne, rischia
oggi di mutuare il solito atto di coscienza maschile, imbalsamato nella
commemorazione, che non intende approfondire in analisi e in capacità
di decostruzione del sistema etero-patriarcale, fascista per eccellenza
e quindi negandosi/ci la possibilità di una liberazione effettiva e a
tutto tondo», scrivono i compagni e le compagne del Pink di Verona
nell’Appello per un 25 aprile di orgoglio e resistenza
(www.circolopink.it). Il 25 aprile, già svuotato a livello
istituzionale dalla teoria dell’equidistanza, perseguita da anni da chi
oggi ha costituto il Partito democratico, ha bisogno di ritrovare una
forza propulsiva nel rifiuto di pratiche e pensieri fascisti sempre più
assimilati e quindi invisibili: il razzismo di chi sgombera campi rom o
abbatte baracche e edifici fatiscenti senza minimamente curarsi delle
persone ospitate all’interno, di chi lancia campagne contro gruppi
etnici in nome della sbandierata sicurezza, ma anche il ritorno in
grande stile della categoria del "naturale", che stigmatizza stili di
vita e soggettività non conformi, presente nelle parole dei
neofascisti, ma anche in quelle pronunciate dai pulpiti vaticani e dai
loro epigoni istituzionali o meno.

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