Il Paese dell’Informazione
Facciamo
un esempio terra terra, per permettere a tutti di capire meglio di cosa
stiamo parlando. Immaginiamo di vivere nel Paese dell’Informazione,
dove esistono 10 imprese private che fanno informazione, 3 tv e 7
giornali. Queste 10 imprese operano in condizioni di mercato del tutto
libero, e vivono esclusivamente delle vendite: di pubblicità e, per i
giornali, delle copie.
Gli inserzionisti pubblicitari,
che guardano al portafoglio, decidono di investire tutti i loro soldi
in televisione, perché il pubblico guarda quella e legge poco. I 7
giornali protestano duramente, dicendo che così li si costringe a
chiudere, con perdita di pluralismo (e lesione del dettato
costituzionale).
Segue quindi il primo intervento del
legislatore a correggere il mercato editoriale: per legge, almeno un
quarto degli investimenti pubblicitari dovrà finire alla stampa. Ma
anche così i 7 giornali arrancano, stremati dalla concorrenza
televisiva. Cinque di loro trovano subito la soluzione: diventare
attraenti, come la televisione, o quasi. Inseguirla a colpi di
informazione spettacolarizzata, gridata, intrisa di gossip e di
gadgets. Diminuisce la qualità dell’informazione, ma aumentano i
lettori, e i bilanci tornano a quadrare, anzi diventano floridi, per la
gioia degli editori.
E gli altri 2 giornali? No, quelli
hanno deciso di non compromettere la qualità della loro informazione, e
di continuare a privilegiare l’approfondimento e l’inchiesta, per
quanto meno attraenti per il pubblico, che infatti diminuisce, e con
esso gli investimenti pubblicitari. I bilanci iniziano ad avere buchi
enormi e allora i 2 giornali decidono di farsi sentire, perché la loro
chiusura significherebbe perdita di pluralismo (e lesione del dettato
costituzionale).
Ed ecco il secondo intervento del
legislatore a correggere il mercato editoriale. I 2 giornali hanno
ragione, meritano un finanziamento pubblico. Cioè, meritano che la
collettività decida di contribuire alla loro esistenza come si
contribuisce all’esistenza del trasporto pubblico o del servizio di
approvvigionamento di acqua nelle case. In altre parole, meritano
tutela in nome della massima di Victor Hugo: “Non essere ascoltati non
è un buon motivo per tacere”.
Un bene per il pluralismo
Il
finanziamento all’editoria nasce dunque dall’esigenza di finanziare chi
decide di non trattare l’informazione come una merce al pari delle
altre, per permettere anche a tali soggetti di farsi udire. Il
finanziamento pubblico all’editoria, quindi, di per sé, non è qualcosa
di negativo. Tutt’altro. Senza di esso, rimarrebbero udibili solo le
voci di chi confeziona un’informazione attraente, dipendente dagli
imperativi del mercato, non importa se di qualità o meno.
Peccato
che interventi come quello di Milena Gabanelli, che al tema ha dedicato
una puntata di “Report” nel 2006, e di Beppe Lopez, che invece nel 2007
vi ha scritto un libro (“La casta dei giornali”, Stampa Alternativa),
nella foga di condannare l’attuale regime di finanziamento pubblico
all’editoria, abbiano finito col gettare via il bambino con l’acqua
sporca, o almeno con l’indurre gli spettatori e i lettori a farlo:
l’impressione ricavabile e ricavata dai più è stata: “è una porcheria,
meglio abolirlo”. Le loro documentate inchieste sulle storture del
sistema, infatti, non sono purtroppo state precedute da una premessa a
nostro avviso essenziale e doverosa: il finanziamento pubblico
all’editoria (se erogato correttamente) garantisce il pluralismo.
La domanda chiave non è dunque “finanziare o no l’editoria?”, ma “chi finanziare?”.
La
risposta sembrerebbe piuttosto semplice. Siccome io legislatore ti
finanzio perché tu non vuoi, per scelta, mercificare la tua
informazione, ti chiederò di rinunciare alla possibilità di ricavare
utili dalla stessa. E siccome chi non vuole fare utili con
l’informazione in genere non trova un editore disposto a stipendiarlo,
io legislatore finanzierò solo i giornali di proprietà dei giornalisti
che li scrivono, ovvero le cooperative di giornalisti (i cui soci siano
tutti giornalisti e che associno almeno la metà dei giornalisti
dipendenti). Inoltre, io legislatore mi accerterò di due cose: primo,
che i tuoi ricavi pubblicitari non superino una determinata percentuale
dei tuoi costi (bisogna infatti scegliere: o ci si fa finanziare dalla
pubblicità o dalla collettività); secondo: che tu abbia davvero un
pubblico, per quanto ristretto, perché non voglio finanziare “giornali
fantasma”, che non vengano acquistati e letti da nessuno: ovvero, mi
accerterò che almeno una parte delle copie da te stampate sia
effettivamente acquistata a un prezzo di mercato (non simbolico!):
poniamo una copia su quattro.
Tutto qui. E invece, cosa è
accaduto? Che, anziché scrivere una norma di questo genere, semplice e
stringata, il legislatore abbia prodotto, negli ultimi venticinque
anni, un coacervo di leggi, leggine, codici e codicilli –
sovrapponibili, incastrabili e scomponibili – che han reso la materia
disorganica e incomprensibile, talvolta persino agli stessi addetti ai
lavori. Questo caos ha portato con sé, in taluni casi, un allargamento
eccessivo delle maglie, che ha ammesso al finanziamento anche chi non
lo meritava, e in certi altri casi una loro assurda restrizione, che ha
tagliato fuori chi ne aveva davvero bisogno. Facciamo alcuni esempi
concreti, per capirci.
Maglie sciaguratamente larghe
Il
legislatore ha ammesso al contributo non solo le testate edite da
cooperative giornalistiche, ma anche quelle possedute a maggioranza da
cooperative, fondazioni o enti morali non aventi scopo di lucro.
Conseguenza? Possono avvalersi del contributo anche Avvenire ,
quotidiano della potente Conferenza Episcopale Italiana, che
giuridicamente è una fondazione e si “merita” 6 milioni di euro di
contributo (questa e le seguenti somme si riferiscono all’anno 2003), e
ItaliaOggi , quotidiano della ClassEditori, gruppo quotato in
Borsa, ma formalmente posseduto al 50,1% dalla coop Coitalia, che si
ingoia 5 milioni di contributo. Bisognosi? Non diremmo…
Come
non sono certo bisognosi i grandi gruppi editoriali che però incassano
pure loro ingenti contributi. La legge, infatti, li prevedeva per la
carta (fino al 2005), e li prevede per le spese telefoniche e postali.
Tali finanziamenti sono erogati “a pioggia” (si parla di contributi
indiretti): cioè, ne ha diritto chiunque, al di là di assetti societari
e bilanci. Così, il 70% dei fondi pubblici destinati all’editoria
(circa 450 milioni l’anno sui complessivi 700 erogati) se ne va nelle
casse di grandi gruppi “for profit” come “Editoriale-L’Espresso” e
“RCS”. Precisamente, oltre 23 milioni di euro vanno al Corriere della Sera , quasi 20 a Il Sole-24 Ore, oltre 16 a la Repubblica .
Il
legislatore ha poi ammesso a contributo anche i giornali di partito.
Giusto? Sbagliato? Evitiamo di addentrarci nella risposta (che
presupporrebbe un ragionamento più ampio sul finanziamento pubblico ai
partiti), limitandoci a rilevare le falle del finanziamento a questa
categoria di giornali.
Per ricevere il contributo, il
giornale di partito, oggi, deve legarsi a un gruppo parlamentare. Ma
ricordiamo che il legislatore ha dissennatamente permesso, fino
all’anno 2000, che il contributo finisse anche a quelle testate organi
di movimenti politici sostenuti anche solo da due parlamentari
italiani. Conseguenza? Si è verificata la moltiplicazione dei
“movimenti politici”, esistenti solo nella fantasia di chi ne ha
trovato i nomi, spesso davvero pittoreschi. Così, sostanziosi
contributi sono finiti a rimpinguare le casse di quotidiani come Il Foglio , organo del movimento politico “Convenzione per la Giustizia” (3,5 milioni di euro di contributo) o Libero ,
organo del “Movimento Monarchico Italiano” (oltre 5 milioni di euro).
Nel 2000, lo scandalo si chiudeva… “all’italiana”: la norma veniva
abrogata, ma le testate che avevano già ricevuto contributi in quanto
organi di movimenti politici avrebbero potuto continuare a riceverli
trasformandosi in cooperative. Tutte più o meno fasulle, e per nulla
giornalistiche, ovviamente.
Va poi rilevata la disparità
di trattamento oggi esistente tra i giornali di partito e i giornali
editi da cooperative, in relazione al requisito delle vendite. I
giornali editi dalle cooperative devono vendere almeno il 25% delle
copie stampate se testate nazionali e almeno il 40% se locali. Invece i
quotidiani di partito non sono sottoposti a questo vincolo, e
potrebbero, per assurdo, anche regalare tutte le copie che stampano. E
questo nonostante parte del contributo sia erogato proprio in base alla
tiratura! Risultato? L’Unità , giornale dei DS, vende 60.000
copie, ma ne stampa più del doppio, per arrivare ad assicurarsi oltre 6
milioni di euro di contributo. Ancora più eclatante il caso di Europa ,
giornale della Margherita, che vende poche migliaia di copie, ma ne
stampa 30.000, arrivando a incassare oltre 3 milioni di euro.
E
che dire proprio del requisito imposto alle cooperative di vendere
almeno una copia su quattro di quelle stampate? Questo vincolo oggi può
essere (e viene) aggirato allegramente: basta vendere sottocosto. Così,
ad esempio, l’Opinione delle Libertà , già organo del
“Movimento delle Libertà per le garanzie e i diritti civili”, tira
30.000 copie e, per vendere le 7.500 necessarie a papparsi il
contributo di 1 milione e 700.000 euro, le piazza sottocosto, a 10
centesimi l’una. Oppure, si esce in abbinamento a testate realmente
vendute in edicola, facendo il cosiddetto “panino”: con questo sistema,
i quotidiani locali del gruppo Ciarrapico ( Ciociaria Oggi , Latina Oggi e Oggi Nuovo Molise ), che escono in abbinamento con Il Giornale , riescono a garantirsi contributi compresi fra i 2 e i 2,5 milioni di euro.
Maglie sciaguratamente strette
Fin
qui, le critiche alle maglie larghe della legge, quelle denunciate da
Gabanelli, Lopez e molti altri in questi ultimi tempi. Ma raramente,
accanto alla critica alle maglie larghe, si è affiancata l’altrettanto
doverosa critica alle restrizioni inserite senza apparente ragione e
con grave danno proprio per chi del contributo avrebbe più bisogno.
Partiamo
dall’assurdità più grande: per ricevere il contributo, la cooperativa
giornalistica deve editare la testata da almeno 5 anni. Non si vede
quale cooperativa possa fondare un giornale e tenerlo in vita per 5
anni senza alcun sostegno, con la prospettiva di ricevere, se tutto va
bene, alla fine del settimo anno i contributi relativi al sesto anno di
vita. Questa norma non è altro che un modo per escludere dall’accesso
al contributo tutti i nuovi soggetti. E, assurdità nell’assurdità, se
cambi periodicità, riparti da zero. Ovvero, ipotizzando che un
quindicinale che già percepisca i contributi voglia diventare mensile
(anche per ridurre i costi), dovrà lasciar passare 5 anni per poterli
ricevere nuovamente. Dovrebbe invece accadere il contrario. E’ proprio
all’inizio del percorso che una cooperativa giornalistica dovrebbe
poter beneficiare del contributo più cospicuo, che poi potrebbe anche
ridursi progressivamente, una volta trascorso il periodo iniziale di 5
anni necessario al rodaggio.
Altra assurdità: per
ricevere il contributo, è necessario far certificare il bilancio da una
società di revisione iscritta all’apposito elenco della Consob. Se per
una testata nazionale questo implica una spesa relativamente bassa, per
una testata locale può comportarne una insostenibile.
Dovrebbe
esserci una differenza (che non c’è) tra il regime contributivo per le
piccole cooperative, locali, e quello per le grandi, nazionali, che
tirano più copie e fatturano di più. Questo è ancora più vero se si
pensa a un ulteriore requisito che verrebbe introdotto dalla nuova
disciplina in materia di contributi all’editoria, da mesi ferma in
Parlamento in attesa di essere approvata: si tratta dell’obbligo di
avere alle proprie dipendenze almeno 5 giornalisti se testate
quotidiane e 3 se testate periodiche. La ragione per cui si è pensato
di introdurre questo requisito è di per sé valida: si vuole evitare che
il contributo finisca a giornali di poche pagine fatti da redazioni
“inesistenti”, farcite di precari e di giornalisti prestanome. Ma è
evidente che, se per una grande testata il costo di 5 (o 3) giornalisti
non è solo sostenibile ma necessario a confezionare un buon prodotto,
per una piccola, magari locale (appunto), sarebbe insostenibile e anche
superfluo. Per evitare di finanziare le “redazioni fantasma”, sarebbe
meglio, allora fare come suggerito da Mediacoop (l’Associazione
nazionale delle cooperative editoriali), ossia variare il contributo
sulla base del numero di giornalisti dipendenti assunti dal giornale:
più ce ne sono, più sarà alto.
E che dire, infine, dell’ostacolo
rappresentato dall’esistenza degli stessi contributi indiretti di cui
beneficiano soprattutto le grandi imprese editoriali “for profit”? Si
pensi che ben 270 milioni di euro finiscono ogni anno, a pioggia, nelle
casse di oltre 7.000 testate, come contributo alle spese postali. Se,
come suggerito sempre da Mediacoop, il diritto a tale contributo
venisse concesso solo alle imprese che rinuncino alla distribuzione
degli utili, gran parte della somma potrebbe essere risparmiata, e
servire, ad esempio, a finanziare i primi 5 anni di vita di una nuova
cooperativa giornalistica, come si diceva sopra. |