Ora che la sinistra è fuori dal Parlamento
tutti a dire che è una storia finita. Ma quale storia? Dovendo proprio
parlare di compagni, SDM si diverte di più con quelli di ieri. Altra
pasta (dal Foglio del 19 Aprile)
“Mettetevi in testa che questo non è un Parlamento borghese che i deputati proletari devono combattere…”.
(Discorso di Palmiro Togliatti ai
parlamentari del Pci nel dopoguerra).
E adesso, chi a complimentarsi e chi a dolersi – con inevitabile nuovo
passo verso un sempre più innocuo modernariato. Dunque: i comunisti,
signora mia, i comunisti oddio non ci sono più… Dissolti tra le urne,
con gli operai passati dalla gloria della bandiera rossa alla mestizia
del fazzoletto verde, mentre il grottesco si fa sconfortante barricata
– “ci siamo occupati troppo di omosessuali e poco di operai”: senti che
razza di giustificazioni – e una stramba ultima deriva verso il nulla.
E’ tutto un lamento – dagli editoriali del Corriere agli opinionisti di
Casini – tutto un condolersi. I comunisti che non sono più in
Parlamento: mamma, e adesso? Giusto sui siti berlusconiani si trova una
certa becera soddisfazione – “Silvio, sei riuscito a fare quello che
gli Usa hanno provato a fare per cinquant’anni: fuori i comunisti dal
Parlamento italiano”: eroico. Tanta la partecipazione allo strazio
politico bertinottiano, tanti i complimenti allo sconfitto, che lo
stesso presidente della Camera, mentre il suo partito precipitava
dentro il pozzo aperto dalle urne, con un sorriso mesto sottolineava:
“Quando uno è defunto riceve molte lodi…”. Del resto, fatica inutile e
impegno sprecato. A dirla tutta – e molti lo dicono – i comunisti in
quell’aula non c’erano più già da anni e anni. Forse da venti, forse
dal tempo della svolta occhettiana, forse da qualche anno dopo e forse
persino da più di vent’anni. Ma quelli che erano i deputati del
glorioso Pci – l’originale accasato a Botteghe Oscure – quelli “tutti
presenti senza eccezione alcuna”, quelli che furono togliattiani e
berlingueriani, i severi funzionari e gli appassionati latinisti,
quelli scomunicati per davvero, con il pacco dei giornali sottobraccio
e l’Unità sopra a tutti, insomma: i comunisti come tradizione e
buonsenso volevano, beh, quelli mancano da un pezzo… Il resto è stato
per quasi quindici anni divertente parapiglia – il Monte Athos, la
quasi rissa ai cessi parlamentari tra un’intelligente trans e una
turbata forzista, i fischietti suonanti in aula, le canne minacciate in
cortile, i sottosegretari in piazza – forse anarchico socialismo, certo
dibattito perenne, comunque e sempre elevata convegnistica. I comunisti
delle Frattocchie – quelli che a volte fanno ancora drizzare per la
paura l’intero apparato tricologico del Cavaliere – purtroppo erano già
via da un bel pezzo.
Diciamo, i meglio comunisti: il classico, il dop e il doc. Tra i
compagni oggigiorno accasati nello Slow food si potrebbe dire: come le
uova di caviale rispetto a quelle di lombo. Altro tempo, altra vita,
altra storia. Per la quale è possibile agevolmente rintracciare qualche
struggimento, un po’ come lo stupore che prende quando succede di
tornare nel proprio paese dopo tanto tempo e dopo aver a lungo cercato
di fuggirne. Così erano? Così eravamo? In fondo, mica così male. A
Montecitorio, i deputati comunisti erano un’ordinata falange,
disciplinatamente votati alla causa. Che magari, per qualche ingenuità
linguistica potevano incorrere in curiose gaffe, ma sempre con il
chiaro profilo della lotta di classe all’orizzonte. Così, negli anni
Sessanta, il compagno onorevole Teodoro Bigi, da Reggio Emilia, invitò
con forza il governo a prendere provvedimenti a favore dell’industria
dei salumi presente in zona, prima che le contadine stremate fossero
costrette ad andare in città “a vendersi il culatello in piazza”. E non
meno fervida di prospettive politiche e di equivoci lessicali
contingenti – stando al resoconto contenuto in “Scusatemi ho il patè
d’animo”, di Guido Quaranta – risultò l’intervento dell’onorevole
Teresa Noce, che con durezza denunciò l’insensibilità sociale dei
governi democristiani, e in aula preannunciò che il Pci avrebbe
“raccolto i bisogni della gente”, li avrebbe sintetizzati politicamente
“in una Carta” e “portati a Montecitorio”. Ogni equivoco fu poi
chiarito. Il compagno che diventava onorevole – e ne ha dato splendida
testimonianza il compagno Peppone diventato senatore nell’apposito film
– viveva innanzi tutto un prolungamento della sua militanza. Non a
caso, e per decenni, fino all’inizio della dissoluzione degli anni
Ottanta, ben più dell’onorevole contava il segretario di federazione, e
persino Giorgio Napolitano, quando fu eletto a capo di quella di
Napoli, lasciò lo scranno di Montecitorio. L’obbedienza, per il
deputato del Pci, era una qualità apprezzata e una virtù richiesta.
Miriam Mafai, che di Giancarlo Pajetta fu a lungo compagna, nel suo
libro “Botteghe Oscure, addio” ha raccontato quello che successe ad
Aldo Natoli, deputato alla sua prima legislatura, nel ’56, quando
l’Urss invase l’Ungheria: “Venne chiamato da Giancarlo Pajetta che gli
chiese di tenere, alla Camera, un discorso a sostegno dell’intervento
armato sovietico. Natoli, che aveva intelligenza e carattere, rifiutò.
I due stavano discutendo, le voci si sentivano fin nel corridoio.
All’improvviso nella stanza arrivò, furibondo, Giorgio Amendola che,
rivolgendosi a Natoli, gridò: ‘Sei un traditore! Hai sbagliato partito!
Dovevi iscriverti al Partito liberale!’. Natoli uscì sbattendo la
porta. E in aula il discorso a difesa dell’intervento sovietico venne
pronunciato da Giancarlo Pajetta”.
La disciplina, virtù per eccellenza rivoluzionaria nel Pci
togliattiano, tra i comunisti parlamentari era pratica sacra e
indiscutibile. Quando, in qualche pagina interna dell’Unità, come è
successo per anni e anni, compariva il piccolo annuncio che tutti i
parlamentari, “senza eccezione alcuna”, erano tenuti alla presenza in
aula, senza eccezione alcuna quelli si presentavano. Rammenta Emanuele
Macaluso, che dell’Unità è stato direttore, del Pci dirigente, deputato
dal ’63 al ’76, senatore dal ’76 al ’92: “Quando nell’annuncio c’era
scritto ‘senza eccezione’, significava che tutti i deputati dovevano
presentarsi. Quando c’era scritto ‘senza eccezione alcuna’, voleva dire
che anche i membri della direzione del partito erano convocati”. Non
essendo un parlamento borghese da conquistare, né un bivacco per bande
rivoluzionarie, i comunisti togliattiani mostrarono subito una
considerazione quasi vicino alla sacralità per l’aula parlamentare.
“C’era un assoluto rispetto per quelle regole – sostiene Macaluso –
Togliatti, da presidente del gruppo, era attentissimo alle forme,
vestiva sempre di blu, non transigeva sulla disciplina. Nella sua
concezione il Parlamento non era una tribuna di propaganda, ma un luogo
di elaborazione politica e legislativa”. Ecco, questa faccenda delle
forme, e persino del vestiario, per il capo comunista ebbe da subito la
sua importanza. Raccontano che guardasse con un certo disagio la
cattivissima ineleganza (look, a quel tempo, era parola che nessuno
pronunciava e nemmeno sospettava) di molti compagni appena eletti,
subito dopo la guerra. A un importante dirigente, che continuava a
ostentare come un cimelio il vecchio cappotto che aveva usato in
montagna durante la lotta partigiana, un giorno chiese tra l’ironico e
l’irritato: “Facci sapere, compagno, se per caso il partito può fare
qualcosa per procurarti un nuovo paltò…”. A quelli che si atteggiavano
a rivoluzionari nell’aula di Montecitorio, ripeteva: “Questo è un
Parlamento conquistato da tutti, in primo luogo da noi; le distinzioni
non valgono”. Molti eletti comunisti, in realtà, alla fine degli anni
Quaranta non dovevano sembrare granché al loro capo. Qualcosa magari
era migliorato, tanto che Togliatti, osservando alcune delle nuove
deputate notò compiaciuto: “Finalmente abbiamo delle compagne che non
portano il 41 di scarpe” – ma per il resto una sola desolazione. Fu
proprio parlando del suo abbigliamento – blu scuro a pois con un
colletto di merletto bianco – e indicandola come modello agli altri
parlamentari, che fece il suo primo complimento alla Iotti: “La giovane
compagna di Reggio Emilia ha un vestito adeguato. Imparate da lei”.
Forse, il modo di portare le cose, più che le cose stesse. “Ricordo –
ha rievocato Nilde Iotti – che andavo in giro con una vecchia camicia
di flanella di mio padre, rivoltata, ritinta con i coloranti Sutter che
usavano allora, ridotta ad abito e portata non so quanti anni”.
C’era una preoccupazione: l’onorevole comunista non doveva marcare
troppo la sua condizione di compagno economicamente privilegiato. “E’
vero che metà dello stipendio andava al partito. Ma chi non era sposato
pagava anche di più, fino al 60 per cento – spiega Macaluso –. Una
forma di autofinanziamento, ma anche un modo di essere del
parlamentare, che non doveva avere una disponibilità di denaro molto
superiore a quella del funzionario di partito. Non doveva collocarsi
economicamente troppo in alto”. Ricorda ridendo Miriam Mafai: “C’era un
deputato siciliano che pose al partito un problema: lui non aveva una
famiglia né, ovviamente, a quei tempi, dei figli. Ma aveva un grosso
cane. ‘Mangia più di un bambino’, tentò di impietosire
l’amministrazione del partito. Inutilmente”. I deputati comunisti,
soprattutto quelli delle prime legislature, si accampavano in alberghi
modesti, due per camera, in case di compagni. “Quando arrivai a Roma –
il racconto di Nilde Iotti – il gruppo parlamentare indicò un certo
numero di alberghi dove alloggiare. Io, insieme al mio compagno di
Reggio Emilia Silvio Fantuzzi, scelsi il Santa Chiara, un vecchio
albergo dietro al Pantheon, vicinissimo a Montecitorio”. C’erano poi le
case dal partito, ovviamente. Come quelle, famosissime, di via Pavia.
Erano riservate a funzionari di un certo grado, e alcuni di loro più
tardi diventarono parlamentari, da Fernando Di Giulio a Ruggiero
Grieco, da Rita Montagnana a Teresa Noce. “Naturalmente – ha scritto la
Mafai – nelle case del partito anche i portieri erano iscritti al
partito e, a maggior ragione, lo erano le donne di servizio che, se
dovevano lavorare nelle famiglie dei compagni della Direzione o della
Segreteria, venivano scelte con particolare oculatezza dalle
federazioni di provenienza”. Si capisce: questa edificante vita
pubblica nascondeva anche scontri interni, lacerazioni, rapporti
conflittuali o magari velati rapporti amorosi, che anche quelli, a quel
tempo, dovevano passare per il vaglio del partito, visto che “l’amore è
una cosa seria, una conquista che si realizzerà a pieno soltanto con la
vittoria del socialismo”, argomentava il compagno Edoardo D’Onofrio: il
soffio del partito sotto le lenzuola del del militante. Ovviamente,
dirigenti e parlamentari erano molto più elastici (per fortuna), nelle
loro relazioni amorose, di quanto venisse insegnato ai compagni di base
(per sciagura). Non solo Togliatti e la Iotti, ma anche molti altri,
compreso Luigi Longo. E fece scandalo Umberto Terracini che, da
presidente dell’Assemblea costituente, si presentò a una cerimonia con
la “concubina”, la donna con cui felicemente conviveva.
Ma alla fine, il campo specifico di lotta del deputato comunista era
l’aula parlamentare. Appunto sacrale, secondo gli insegnamenti
togliattiani – e di tutti quelli a seguire – ma che pure vide momenti
di forte scontro, contrapposizione, ostruzionismo: come al tempo del
Patto atlantico o della “legge truffa” o, infine, della battaglia sul
taglio della scala mobile deciso dal governo Craxi. Liti memorabili
come quella del giugno ’48, quando il comunista Fausto Gullo attaccava
gli elettori democristiani (“beghine”, “suore sepolte vive”,
“paralitici”) e i democristiani, nella persona dell’onorevole Tomba,
replicavano sullo stesso tono (“pregiudicato”, “sgualdrina”). Le
cronache dicono dell’onorevole Tomba finito in infermeria e di due
deputati comunisti soccorsi con il Lysoform. Ma un parapiglia come al
tempo della “legge truffa” non si vide mai più in seguito. Pietro
Secchia voleva che i deputati comunisti abbandonassero l’aula,
Togliatti si oppose. Si trattò, secondo Pietro Ingrao, di un “misurato
ostruzionismo che tenne aperta la lotta in Parlamento (tra Senato e
Camera) per circa un lungo semestre” che “appare assurdo e insensato,
se non si afferrano il suo combinarsi e prolungarsi nel territorio”.
Però in Parlamento. “Il Parlamento stava nel nostro cammino proprio
perché cercavamo, tentavamo di costruire luoghi e forme di potere
pubblico, aperti alla volontà delle masse e capaci di incidere
sull’agire dello stato”. E proprio il deputato Ingrao, nell’aula di
Montecitorio, fu protagonista del gesto che divenne simbolo di quei
mesi di lotta. Mentre la Camera discuteva, lui uscì per via del
Tritone. C’erano scontri tra la polizia e i manifestanti comunisti.
Ingrao interviene in difesa di un gruppo di dimostranti. “A domanda,
tirai fuori come risposta il tesserino di deputato. Il poliziotto
furente che mi stava di fronte rispose con una secca randellata sulla
mia testa”. Torna a Montecitorio. “In aula stava parlando un compagno:
aspettai in Transatlantico che finisse (…) Poi entrai in aula con quel
fazzoletto insanguinato sulla fronte a raccontare ciò che accadeva in
quella cupa notte romana”. Così, “il dramma parlamentare accendeva
nuovamente gli animi nel paese”.
Ma in generale, per fortuna, era tutto più calmo e ordinato. Dai
deputati comunisti, rammenta Enzo Roggi, giornalista parlamentare
dell’Unità negli anni Sessanta, veniva “un attento grigiore”, la noia
dello studio di tutti i trucchi parlamentari, “come si può conoscere la
strada di casa”, un “impegno quasi pedagogico” che al peggio poteva
produrre interventi in aula come questo, riportato nel libro di
Quaranta: “Da un punto di vista concretamente organico, cioè da un
punto di vista organicamente concreto, cioè guardando le cose con
organica concretezza…”: se non moriva prima di noia, magari la causa
del socialismo faceva pure qualche passo avanti. Ma l’onorevole
comunista non doveva mai abbassare la guardia. In aula, allora: lì il
pubblico confronto, la prova di forza, la possibilità di assestare un
colpo (politico) all’avversario. Naturalmente, qualcuno doveva curare,
ordinare, tenere d’occhio la faccenda. La questione fu a lungo nelle
mani di un parlamentare che è diventato col tempo un vero e proprio
mito: il compagno Mario Pochetti da Palombara Sabina, segretario d’aula
del gruppo. Un gran tipo, il compagno Pochetti. Così esperto di
strategia parlamentare, di trucchi e di regolamenti che una volta,
all’inzio degli anni Settanta, Sandro Pertini, presidente della Camera,
di fronte a un’aggrovigliata faccenda regolamentare sbottò: “Vediamo di
chiedere a Pochetti, che se ne intende di più…”. Nella funzione che il
parlamentare svolgeva nel Pci, il ruolo di Pochetti era centrale, come
del resto quello di una sua altrettanto risoluta collega della Dc,
ricorda Macaluso, “e i democristiani temevano più lei che De Gasperi e
Fanfani”. Tra l’aula e il Transatlantico, in certi frangenti, la
funzione di Pochetti superava quella del segretario. Una volta fece
venire a votare Enrico Berlinguer con la febbre, appena tornato da una
viaggio da Mosca. Dopo un lieve ritardo pubblicamente osò una ramanzina
al mitico segretario del Pci: “Tu qui dentro sei un deputato come tutti
gli altri, e un ritardo va giustificato” – e con il dito gli indicò
seccamente l’ingresso dell’aula. Raccontano che ad Alfredo Reichlin,
splendido retore ma forse non accanito frequentatore di Montecitorio,
disse un giorno: “Compagno, tu sei come Severino Gazzelloni: vieni, fai
l’assolo una volta l’anno, prendi il nostro applauso e te ne vai”. Gran
cultore del Belli, e dunque pacifico teorico della convinzione “io so’
io, e voi nun siete un cazzo”, con pugno di ferro e granitica
organizzazione instradava le truppe comuniste. Una carica monocratica,
praticamente sconosciuta all’esterno, E siccome, spiegava Pochetti,
“può succedere la qualunque”, dieci deputati comunisti, pescati ogni
volta in ordine alfabetico, erano comandati in aula anche di lunedì o
di venerdì, quando assolutamente nulla succedeva. “Vigilanza
democratica”, era l’accorto mandato. E siccome “la qualunque” può
appunto succedere, prima delle ferie il compagno Pochetti saggiamente
raccoglieva, su un foglio bianco, la richiesta di convocazione urgente
della Camera da parte del gruppo comunista. Richiesta, per dire, di una
certa utilità quando il nazista Kappler scappò dal Celio in pieno
ferragosto. Una meravigliosa battuta Pochetti la riservò al non
giovanissimo capo democristiano Remo Gaspari, che un giorno si presentò
in aula con il braccio ingessato: si era infortunato inaugrando con una
partita a tennis un campo sportivo al suo paese. Gaspari forse si
aspettava un applauso per lo spiccato senso del dovere, invece nel
silenzio assoluto si ode la voce di Pochetti: “Suotr, ne ultra
crepidam!” (Calzolaio, non andare oltre la scarpa!). Ecco, il latino
era largamente praticato nel gruppo comunista, da alti dirigenti fino
ai deputati di periferia. E’ rimasto famoso l’urlo di Alessandro Natta
contro un parlamentare che si affannava a descrivere “l’aiter della
legge”. “Bestia: iter, è latino, bestia!”, urlò il capogruppo
comunista. E quello: “Scusate il lepsus…”. Personaggio fondamentale del
gruppo del Pci per decenni fu Giancarlo Pajetta, fenomenale battutista.
Come quella volta che in aula erano rimasti solo lui (che sbrigava la
sua corrispondenza) e un deputato monarchico che parlava. Oltre a un
vicepresidente e ad alcuni stenografi. E Pajetta, avviandosi verso
l’uscita saluta l’ultimo collega rimasto, che insiste a tirare avanti
col discorso: “Poi, quando finisci spegni la luce!”. Tutt’altre storie.
Finite chissà come e quanti anni fa. Magari con quel gesto di Nilde
Iotti, che con fare imperioso costringe tutti i suoi compagni
pidiessini – indecisi e restii a farlo – ad alzarsi per salutare Irene
Pivetti, salita sullo scranno più alto al suo posto: la Gran Signora di
Montecitorio salutava così la sua Istituzione. Che un giorno, nella
direzione del Pci, aveva difeso anche contro Berlinguer. Era il tempo
dello scontro sulla scala mobile. Il segretario pose il problema di
certe questioni regolamentari sul dibattito in corso, visto che che a
volte la presidenza aveva dato ragione al governo. Ricorda Macaluso:
“La Iotti si alzò e disse: se volete qui la mia presenza, le questioni
della Camera si discutono alla Camera”. Nessuno aprì più bocca, dopo le
parole della compagna presidente. Anzi: del presidente. Perché, come la
Iotti spiegò, “la presidente sarebbe una forzatura grammaticale non
ammessa del resto neppure dalla voce latina da cui deriva…”. Davvero:
un altro tempo e un’altra tempra.
di Stefano Di Michele