La riforma universitaria,
approvata alla chetichella e senza clamore ad agosto, sta per far
sentire i suoi effetti disastrosi su tutta l’accademia italiana.
Privatizzazione e chiusure delle sedi minori le conseguenze più
probabili.
Per capire esattamente la posta in
gioco della cosiddetta riforma dell’università è
innanzitutto necessario esaminare il decreto legge
112 (detto anche decreto Brunetta e disponibile on line al seguente
indirizzo: http://www.parlamento.it/leggi/decreti/08112d.htm),
emanato dal governo il 25 giugno 2008 e convertito in legge dal
parlamento il 6 agosto. E’ infatti qui che è possibile
trovare i termini della suddetta riforma, ad onor del vero mai
annunciata perché in effetti mai ne abbozzata ne discussa. Il decreto legge infatti ha come scopo,
lo dice l’articolo 1 intitolato "Finalità e ambiti di
intervento", la riduzione del debito e la crescita del prodotto
interno lordo attraverso, tra gli altri, investimenti in innovazione
e ricerca ed il rilancio delle privatizzazioni e dell’edilizia.
Si tratta dunque di una delle tante
discutibili maxi raccolte di articoli di legge riguardanti ogni
genere di materia, dal costo dei libri scolastici (art. 15) alla
battaglia "anti fannulloni" del ministro Brunetta (art.
71). La conversione dello stesso decreto in legge, la numero 113, ad
una settimana da ferragosto, ha reso impossibile un serio dibattito
in parlamento e sui media italiani, più impegnati a dare
spazio alle intemperanze verbali di Brunetta che ad analizzare
compiutamente l’attività del governo e del parlamento.
D’altronde c’è da dire che un discussione su un decreto del
genere è stata resa nella pratica impossibile dell’estrema
eterogeneità dei contenuti e dalle necessità politiche
di un governo che sempre più sta strozzando l’autonomia del
parlamento a vantaggio di un decisionismo poco consono ad un sistema
democratico maturo e, appunto, parlamentare. Come si sia
arrivati a questo punto non è compito di questo articolo dirlo
e non è nemmeno suo compito spiegare perché il
passaggio da 5 a 10 anni della durata della carta d’identità
sia materia da decreto legge. Resta il fatto che in Italia ormai da
tempo si emanano decreti contenenti « misure necessarie e
urgenti » che comprendono al loro interno tutto ed il
contrario di tutto: università, provvedimenti per la riduzione
delle emissione di CO2 e della carta nelle pubbliche amministrazioni,
regolamentazione della banda larga e della “ricerca e coltivazione
di idrocarburi nelle acque del golfo di Venezia” . E sopratutto,
cosa ormai non più sorprendente ma francamente immorale, resto
il fatto che si chieda al parlamento di votare il polpettone di
turno senza uno straccio di riflessione ed un dibattito pubblico e
partecipato. Ovviamente un atteggiamento responsabile avrebbe
consigliato di votare no ma non è il caso di disquisire troppo
su di un tema che ci porterebbe lontano.
Facoltà
di trasformazione in fondazioni delle università
Per quello che ci riguarda mi limiterò
qui ad illustrare ciò che concerne l’università
italiana.
Il primo articolo di
nostro interesse e forse il più importante è l’articolo
16, intitolato “Facoltà
di trasformazione in fondazioni delle università”. Si
permette cioè a ciascuna università, attraverso un voto
a maggioranza assoluta del proprio senato accademico, di trasformarsi
in fondazioni di diritto privato. Tutte le proprietà
immobiliari saranno dunque trasferite alle nuove fondazioni che
potranno aprirsi a “nuovi soggetti, pubblici o privati.” Avranno
inoltre "autonomia gestionale, organizzativa e contabile" e
potranno adottare regolamenti "anche in deroga alle norme
dell’ordinamento contabile dello Stato e degli enti pubblici".
Sarà infine loro cura raggiungere "l’equilibrio di
bilancio" fermo restando, così dice l’ambiguo comma 9, il
sistema di finanziamento pubblico che terrà conto, a "fini
perequativi", dell’entità del finanziamento privato. Pur sforzandosi di fare astrazione delle valutazioni politiche è
indubbia l’assoluta rilevanza di questo articolo. Si configura qui
una vera rivoluzione copernicana dell’università italiana che,
da pubblica, diventa totalmente privata ed autonoma. L’intervento
pubblico si limiterebbe così a colmare i buchi nel bilancio
che la mano privata lascerebbe scoperti (i “fini perequativi”) ma
in una prospettiva di futura totale autonomia gestionale e
finanziaria delle fondazioni universitarie stesse. Anche
i contratti di lavoro del personale insegnante e non sarebbero
lasciati alla libera contrattazione tra le parti ed infatti il
penultimo comma, il 13, dichiara che “il trattamento economico e
giuridico” rimarrà in vigore “fino alla stipulazione del
primo contratto collettivo di lavoro”.
Incentivi
alla trasformazione
Risulta
evidente che un trasformazione del genere di quella proposta
dall’articolo 16 potrebbe essere sicuramente avversata, quanto meno
per principio, da parti anche consistenti o addirittura maggioritarie
del corpo docente e studentesco. Come fare dunque per ottenere un
voto in tal senso dal senato accademico di ciascuna università?
In
nostro soccorso viene il titolo III, “Stabilizzazione della finanza
pubblica”.
L’articolo 66, comma 13, riduce infatti il fondo per
il finanziamento ordinario delle università di “63,5 milioni
di euro per l’anno 2009, di 190 milioni di euro per l’anno 2010, di
316 milioni di euro per l’anno 2011, di 417 milioni di euro per
l’anno 2012 e di 455 milioni di euro a decorrere dall’anno 2013.”
La strategia che si delinea qui è con evidenza improntata
allo strangolamento finanziario delle università pubbliche
che, già provate da anni di continui tagli (Mussi e Moratti,
tanto per citare gli ultimi due ministri), saranno messe con le
spalle al muro: o morire e chiudere i battenti o aprirsi
nell’organizzazione e nella gestione ai privati sperando di poter
incassare in cambio qualcosa dal punto di vista finanziario. Risulta
a questo punto quasi derisoria la rassicurazione del già
citato articolo 16 comma 9 riguardante l’attività
compensatoria dello stato nei confronti del bilancio delle nuove
fondazioni. Da un lato si dichiara di voler sostenere gli oneri
finanziari dell’università, dall’altro si taglia quasi un
miliardo e mezzo di euro da qui al 2013.
E’ stato però
fatto notare che le università trarranno graduale e costante
sollievo finanziario dai pensionamenti di larga parte della classe
docente entrata in università negli anni 60 e 70 – e quindi,
visto l’anzianità, costosa – e da altri risparmi legati agli
art. 67 e 74. Questo è solo in parte vero. Innanzitutto, se
da un lato molti docenti andranno in pensione, dall’altro non si
prevede una loro adeguata sostituzione. Fino al 2011 infatti non sarà
permesso che un rimpiazzo del 20% del personale uscente mentre per
l’anno 2012 si parla del 50%.
Certo si tratta di stabilizzazioni,
quindi contratti a tempo indeterminato. L’effetto però sarà
quello di accrescere sempre più il numero dei precari in
università. Precari a cui si provvede ad abbassare lo
stipendio già magro di suo. Gli aumenti salariali per
anzianità non saranno infatti più biennali ma triennali
ed i risparmi ottenuti non saranno disponibili alle università
stesse ma confluiranno in un capitolo generale (comma 2 dell’art. 69)
di cui si ignora l’utilizzo.
Obiettivamente è difficile
raccapezzarsi e trovare un senso in questi articoli. Il perché
lo spiega l’interlocutorio comma 6 dell’art. 66 che permette per
quest’anno di assumere a tempo indeterminato fino ad un massimo di 75
milioni di euro a regime. Il risultato è stato una vera e
propria “corsa
alla spesa:
tra aprile e giugno le università hanno bandito 685 posti di
professore ordinario e 1093 posti di professore associato. “
(1)
Cosa
cambia in soldoni
"Il
Paese deve sapere che con tale misura [si riferisce agli articoli 66
e 69, ndr],
se mantenuta e non modificata, si determinerà una condizione
finanziaria del tutto incontrollabile e ingestibile, con effetti
dirompenti per gli atenei. Si renderà sempre più
difficile l’ingresso nei ruoli di giovani di valore; peggiorerà
il livello di funzionalità delle Università, anche come
conseguenza dell’ulteriore mortificazione delle condizioni
retributive del personale tecnico e amministrativo; diventerà
sempre più difficile se non impossibile reggere alla
concorrenza/collaborazione in atto a livello internazionale; si
annullerà di fatto il fondamento stesso dell’autonomia
universitaria, come definita negli anni ’90, basata sulla gestione
responsabile dei budget."
E’
questo ciò che ha dichiarato il CRUI, la conferenza dei
rettori italiani, il 24 luglio scorso.
L’università
viene, grazie ad un decreto votato sull’onda della guerra ai
fannulloni di Brunetta, privata del 20% delle proprie risorse
finanziarie. Per rimediare a questo stato di cose e per tentare di
rinnovare – e trattenere visto la continua fuga dei nostri
ricercatori all’estero – davvero il suo personale l’università
pubblica italiana sarà costretta ad auto privatizzarsi.
Il
come è lasciato all’autonomia di ciascun istituto che, una
volta diventato fondazione, sarà amministrato anche da privati
che potranno gestire e disporre del patrimonio immobiliare.
Il
rettore della statale di Milano nonché presidente del CRUI
stesso si era d’altra parte già espresso piuttosto
chiaramente:
"Il
nostro sistema universitario è già largamente
sottofinanziato rispetto agli standard europei. Ci viene chiesto di
sommare l’aumento inevitabile delle spese obbligatorie ai tagli che
vengono ora previsti in crescita per cinque anni. L’università
non reggerà l’impatto. Una situazione che determinerà
inevitabilmente aumenti delle entrate proprie. Ivi comprese le
contribuzioni studentesche. Ma che in ogni caso porterà
inevitabilmente l’intero sistema universitario pubblico al
dissesto. Inoltre, la limitazione delle assunzioni di personale a
tempo indeterminato al 20% del turn over danneggerà gravemente
la funzionalità scientifica e didattica degli Atenei. E le
prime vittime sarebbero i giovani ricercatori, le cui possibilità
di ingresso nel sistema universitario verrebbero drasticamente
ridotte".
Il
decreto legge 112 è un decreto "pesante" che sta
portando alla mobilitazione addirittura il CRUI, di solito propenso
al dialogo ed alla conciliazione sempre e comunque. Il perché
l’abbiamo già detto: si tagliano i fondi di 1 miliardo e 400
mila euro nei prossimi 5 anni e di quasi mezzo miliardo per il 2009
quando, stando all’ultimo rapporto Ocse (Education at a Glance 2007),
la percentuale del prodotto interno lordo italiano dedicato
all’università è dello 0,8% contro una media dell’1.3
dei paesi avanzati. Per ogni studente in italia si stanziano (dati
riferiti al 2004) 7.700 dollari contro i 9.400 della Spagna, i 10.700
della Francia e i 12.200 della Germania.
Paradossalmente le
tasse di iscrizione dovranno diminuire nei prossimi anni – siamo
tutti però sicuri che questo, per i più svariati
motivi, non avverrà mai – e questo perché non possono
per legge superare il 20% del fondo ordinario che è stato
saccheggiato di un miliardo e mezzo di euro. O gli atenei si
atterranno alla legge e, come sta avvenendo a Firenze, andranno
incontro alla bancarotta, oppure cresceranno le proteste e la
tensione con le organizzazioni ed i sindacati studenteschi attenti ai
diritti dei propri rappresentati. Anche qui rimane la via d’uscita
indicata in apertura: la privatizzazione e la conseguente
liberalizzazione – o dovremo dire deregulation selvaggia? – della
gestione, tasse universitarie e borse di studio comprese. Inutile
dire che si tratterà di un innalzamento brusco e
repentino.
Università privatizzata e tasse raddoppiate
da un anno all’altro? (S)vendita del patrimonio immobiliare di pregio
delle grandi università? Indebitamento con le banche e
gestione privata dell’istruzione e della ricerca che dovrebbe essere
pubblica? Senato accademico svuotato di ogni residua
rappresentatività e potere ai consigli dei sindaci delle nuove
fondazioni private?
Non è una prospettiva così
peregrina. Giudo Barbujani ha parlato esplicitamente di “atti
vandalici contro il sistema universitario” (2) e si chiede che
senso abbia un decreto legge che, per garantire lo sviluppo
economico, punti esclusivamente a disinvestire. Anche negli USA, dove
l’università è molto differente dalla nostra, i
finanziamenti pubblici sono il doppio di quelli italiani. Per lui la
situazione è chiara: o si privatizza con lo sponsor e ci si
laurea a prezzi di mercato oppure si chiude.
“Resta
da capire – aggiunge – come potranno scommettere sul proprio
talento i nostri migliori laureati, senza investimenti nella ricerca,
senza borse di studio, senza futuro nel sistema accademico.”
E’
inutile negarlo: l’università italiana era già allo
sbando prima della legge 113/08. Questa riforma appare però
come il definitivo colpo di grazia.
"La
situazione è talmente grave e netta che dobbiamo essere in
grado di dare risposte nette. È necessario che non parta il
prossimo anno accademico" ha dichiarato il coordinatore
nazionale dei ricercatori nonché membro del senato accademico
della Sapienza Marco Serafina."
1)
http://www.lavoce.info/articoli/-scuola_universita/pagina1000555.html
2)
Il pane per la ricerca,
Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2008
Approfondimenti:
http://universita-ricerca.wetpaint.com/page/Materiale
http://attachments.wetpaintserv.us/m1h9B6N7MhatWr63Iu5v4A%3D%3D393439
http://www.lavoce.info/articoli/-scuola_universita/
io aggiungerei: autogoverno. mi chiedo: nei senati accademici i ricercatori votano? i precari da 10 anni? o solo i prof fissi e intoccabili?
L’Università, oltre a un ascensore sociale, è oggi più che mai un formidabile propulsore economico che un paese che vuole essere tra i più avanzati, non può permettersi di non avere. Tale propulsore deve essere efficiente, ben organizzato, con la giusta quantità di risorse. I provvedimenti degli ultimi governi vanno in direzione opposta. L’Università italiana gode inoltre di cattiva immagine presso l’opinione pubblica. Dei tagli poco si parla sui giornali perchè l’argomento non interessa o perchè ciò viene visto come una azione di dimagrimento e punizione di una casta. Ciò è anche colpa di chi lavora nell’Università, troppo chiusa dentro alla sua torre d’avorio. Volendo essere ottimisti, l’attuale situazione può essere una irripetibile occasione di rinnovamento. Spesso i salti avvengono quando la situazione è drammatica. Occorre una piano di riorganizzazione che, liberandosi dai legacci ideologici e spezzando le catene dei poteri e poterini, porti maggiore efficienza e meritocrazia nei nostri Atenei. Solo con questa carta in mano ci si può sedere ad un tavolo di trattativa, altrimenti sarà facile per il governo (qualunque colore abbia) dire che gli universitari vogliono solo difendere dei privilegi. “Do ut des”, io ti do efficienza e meritocrazia, tu non mi tagli i fondi. Credo che l’unico modo di tentare una via d’uscita il seguente.
1) Sedersi al tavolo del Governo con una controproposta scioccante: L’Università italiana è disposta ad una rapida svolta meritocratica ed efficientistica se si soprassiede ai tagli. Quando parlo di svolta meritocratica ed efficientistica parlo di una valutazione oggettiva del rendimento di ogni singolo docente/non docente. In base ai risultati ottenuti si può essere premiati o penalizzati fino al licenziamento. Questa svolta deve avvenire per tappe forzate in non più di 5 anni.
2) Occorre che l’Università impari a curare maggiormente la propria immagine
che, non priva dei contenuti, faccia capire ai cittadini italiani che l’Università Italiana è una istituzione di cui essere fieri. Gli argomenti e gli esempi non mancano, ma rimangono nascosti. Mi chiedo infine perchè gli industriali non battano un colpo contro tagli che provocheranno danni evidenti anche a loro quando cercheranno laureati e ne troveranno sempre meno e sempre meno preparati. Le grandi aziende potranno reclutarli dall’estero, ma sarà più difficile per le piccole e medie aziende che sono il 90% del tessuto produttivo.