da rk: questo non è un paese per giovani

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To: "rekombinant" <rekombinant@liste.rekombinant.org>
Date: Sat, 17 May 2008 19:34:40 +0200
Subject: questo non è un paese per giovani
Pur
particolarmente refrattario ad ogni genere di commissione, mi trovo ad
analizzare dei curriculum. E s’è c’è una lettura istruttiva di
biografie personali, dove si legano mancanza di esperienza reale e
presenza di titoli, è proprio l’analisi del curriculum.
Nella nostra società l’esperienza o è una possibilità mancata o è una
realtà che deve lasciare il passo all’accumulo disordinato dei titoli.
In ogni caso, l’entrata nel mondo del lavoro precario e discontinuo
presuppone la negazione dell’esperienza in nome del protocollo
curriculare.
Esperienza che nei curriculum rientra in modo periferico nelle voci
aggiunte del tipo "dotata di forte empatia personale" o
"particolarmente propenso ai lavori di relazione con il pubblico". Allo
stesso tempo la varietà di embrioni di  differenti specializzazioni,
presenti nella maggior parte di laureati e dottori di ricerca, indica
l’enorme difficoltà a specializzarsi realmente in un definito settore
di lavoro. Si procede per tentativi, in tanti percorsi curriculari non
c’è l’itinerario irregolare di una creatività che cerca se stessa ma
solo quello dettato dalla paura.
In questo modo nè l’esperienza reale nè i tentativi di specializzazione
professionale servono per stare sul mercato: è il circolo vizioso del
lavoro professionalizzato italiano. Ci sono persone che nei curriculum
che mostrano comunque un grado di specializzazione, e di varietà di
competenze, di gran lunga maggiore della generazione dei loro genitori.
Non basterà loro per garantirsi un tipo di reddito che all’epoca dei
loro genitori sarebbe spettato ai casi di marginalità sociale rientrati
nella norma dopo anni di devianza e quindi di specializzazione mancata.
Decisamente, questo non è un paese per giovani.
Ed è una frase che mi circola tra i neuroni al momento in cui, in
qualche commissione di tesi, vedo persone abbracciare i propri genitori
all’avvenuta proclamazione di una laurea tra la disattenzione dei
commissari e il fatto che il certificato ottenuto si inflaziona sempre
più in modo simile ad un biglietto da un marco durante la repubblica di
Weimar.
Devo dire che quando mi laureai il mio professore mi mise
antropologicamente sul piede di guerra: "la tesi non è più un rito di
passaggio" disse " dopo la funzione dall’altra parte non c’è un
cambiamento di stato, praticamente c’è solo il nulla".
In questi anni se si può parlare ancora di rito di passaggio possiamo
dire che questo, nella società italiana, è invertito di segno. Il primo
antropologo che ha parlato di riti di passaggio, Van Gennep all’inizio
del ‘900, rimarcava come questo genere di rito fosse connesso alla
mutazione di status dell’iniziato, al suo acquisire nuove facoltà da
spendere in un nuovo ruolo.
Ebbene, il rito di passaggio della tesi, ma vale  anche per i
successivi riti di specializzazione, nella società italiana consegna
all’iniziato un ruolo sempre più incerto del precedente proprio per chi
ha acquisito delle facoltà maggiori  grazie al rito iniziatico. Se c’è
quindi un contributo al nichilismo delle generazioni più giovani viene
proprio dal carattere non più iniziatico, o inversamente iniziatico,
del mercato del lavoro. Il rito della professionalizzazione si compie
comunque ma a differenza del passato, termina con la riduzione ad
impotenza dell’iniziato non con un suo accrescimento delle facoltà.
Allo stesso tempo, lo stato di instabilità del mercato del lavoro, e
delle sue forme di garanzia, è talmente elevato che per molti nella
piena maturità lavorativa c’ è il rischio di un improvviso ritorno a
condizioni professionali tipiche dell’incertezza dello stato iniziatico.
Non c’è quindi da stupirsi se una società spoliticizzata come quella
italiana, incapace cioè di darsi risposte sul piano delle strutture
collettive, questa situazione di incertezza, questa riduzione
all’impotenza delle migliori energie giovanili generi il desiderio di
dispositivi espiatori.
Classicamente il rito espiatorio è di tipo mimetico, rappresenta sempre
qualcosa d’altro rispetto al soggetto scelto per la cerimonia di
espiazione. Non a caso il rito espiatorio viene analizzato a partire
dal capro che viene rivestito di differenti abiti simbolici a seconda
delle società, e dei momenti storici, che lo applicano.
E qui bisogna ricordare che i Rom e gli  zingari di oggi rappresentano
l’abito simbolico del rito espiatorio dell’instabilità del mercato del
lavoro. Nel colpire il Rom concreto, si mette in scena il rito della
distruzione simbolica dell’instabilità che permea nelle metropoli
grazie alle caratteristiche attuali del mercato del lavoro.
Visto come nomade, portatore di insicurezza e di incertezza il Rom
assume su di sè queste caratteristiche che sono anche del mercato del
lavoro. Ma l’ideologia della indiscutibilità del mercato porta a
trasferire il desiderio di riti di espiazione nei confronti di figure
concrete, come i Rom, che se uccise simbolicamente devono trascinare
con sè anche la condanna trasfigurata e sublimata dell’incertezza
generata dal mercato.
In The Origin of Language un girardiano critico come Gans descrive il
rito espiatorio come un processo in cui i partecipanti si dividono il
corpo della vittima come reliquia della crisi risolta. Impossibile non
ricordare immediatamente l’assalto dei campi Rom a Napoli dove,
successivamente al rito espiatorio delle bottiglie molotov, i
partecipanti si sono divisi i beni rimasti sul campo come a
simbolizzare proprio la risoluzione della crisi. Le stesse istituzioni,
che smembrano i campi Rom a Milano o a Roma, partecipano direttamente a
questo rito nella stessa operazione di simbolizzazione della crisi
risolta tramite l’appropriazione di elementi significativi appartenenti
al corpo della vittima (le baracche, le roulotte, gli effetti
personali).
Nella società italiana l’inversione di senso del rito di passaggio
genera quindi la necessità di riti espiatori. Che sono riti di
stabilizzazione e risoluzione delle crisi e quindi di conservazione di
una società. Decisamente un qualcosa che non è per giovani anche se le
stesse fasce giovanili sono spesso consenzienti, quando non sono
indifferenti, verso questi processi di espiazione.
Per quanto tutto questo sia raggelante non dobbiamo attenderci niente
di differente finchè la composizione sociale del lavoro è frammentata.
E in Italia ad una frammentazione sociale del lavoro caratterizzata da
una color line (tra nativi ed extracomunitari) se ne aggiunge una di
tipo generazionale, dove persino a parità di mansioni, la forza lavoro
più giovane è separata da quella di differente età.
Così tra la paura che attraversa la forza lavoro e la ricerca di
fantasmi da uccidere, ci avviamo ad un "compiuto processo di riforme"
almeno così dice il linguaggio della politica ufficiale

mcs

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