da http://www.proteo.rdbcub.it/stampa.php3?id_article=488
di Rémy Herrera
Critica della critica del “pensiero unico”
1. Introduzione
Sforziamoci, prima di intraprendere questo periplo attraverso l’economia politica, di allacciare il filo conduttore del nostro discorso alla realtà del mondo, la cui evidenza è così brutale da bucare gli occhi. Col rischio, deliberatamente accettato, di sembrare di privilegiare il percetto sul concetto e cadere di colpo dal logos al pathos, contempliamo per un istante quello che il mondo ci fa vedere delle sue differenze. Innanzitutto esistono, altrove e lontano, in periferia, al Sud, immense città di lamiera, di fango e di polvere, la spoliazione generale, le carenze e l’insicurezza, la violenza delle condizioni di vita e di lavoro di masse gigantesche e anonime di uomini e donne, e bambini, umiliati e offesi. Quello che abbiamo inoltre sotto i nostri occhi, che lo vogliamo o no, qui, ma sempre lontano, al centro, al Nord, dei fantasmi erranti del XIX secolo, migliaia di uomini e donne senza casa, vecchi abbandonati, “intoccabili” dai volti deformati dalla miseria, privati di tutto e disumanizzati. Questa visione partigiana e sentimentale, soggetiva, sembra accordarsi abbastanza bene con l’obiettività neutra e rigorosa della statistica. Il 20% della popolazione mondiale più ricca disporrebbe dell’ 83% del reddito totale, mentre il 20% dei più poveri supererebbe appena l’1%1. Il PIL pro capite sarebbe di 22.770 dollari nelle “economie a reddito elevato” (925 milioni di abitanti), contro 3.230 dollari per il resto del mondo, Africa, America latina, Asia, Europa dell’Est (5 miliardi di abitanti), dove 3 miliardi di persone, ossia la metà della popolazione del pianeta, vivono con meno di 3 dollari al giorno2. Lo scarto nei redditi tra i dirigenti di compagnie multinazionali e operai del settore informale potrebbe corrispondere a un rapporto di uno a svariate decine di migliaia negli Stati Uniti, dove la struttura di ripartizione del reddito è quasi disuguale quanto quella dell’India3. Malgrado il loro carattere approssimativo ed esagerato4, queste cifre testimoniano la polarizzazione del sistema mondiale capitalista5, le cui conseguenze in termini di durezza della vita per i popoli della periferia e, in maniera generale, per le classi popolari, si leggono perfino negli indicatori di durata della vita: la speranza di vita è di 77 anni nei paesi del Nord, contro 61 anni in Asia del Sud edi 52 nell’Africa sub-sahariana6; in Francia, la speranza di vita a 35 anni è di altri 44-45 anni per gli ingegneri, quadri superiori e liberi professionisti, contro 38 anni per gli operai specializzati e 35 per i manovali7. Questi dati rivelano un dato di fatto. Ma non forniscono alcuno strumento di analisi per comprendere la concatenazione dei meccanismi che articolano i mercati e le organizzazioni che producono questa polarizzazione sistemica connaturato alla dinamica del capitale, e che lo riproducono su scala sempre maggiore. Questi strumenti analitici non possono essere scoperti che dentro e attraverso la ricerca teorica. Ora, che cosa si osserva oggi nella teoria economica? Il dominio di una corrente di pensiero – che noi classifichiamo molto provvisoriamente come “neoclassica-neoliberale-ortodossa” – che, di fronte alla realtà di queste disuguaglianze, sceglie di escluderle dal suo campo visivo con la negazione, secondo i suoi presupposti, della pertinenza dei concetti e dei metodi suscettibili di rendere conto di questa polarizzazione, e con la costruzione compensatoria di un paradigma fittizio fatto di equilibri ottimali e di armonie immaginarie, tendente alla scienza e all’universalità ma sempre apologetico di un capitalismo scelto come l’unico pensabile in teoria e orizzonte insuperabile della storia. Questo ci porterà alla questione di sapere per quale strano effetto gli economisti neoclassici-neoliberisti-ortodossi si accontentano del fatto di dover formulare delle verità scientifiche e universali sul funzionamento di questo mondo così straordinariamente iniquo e violento nel quale sono immersi e che attraversa da parte a parte la loro neutralità di ricercatori.
2. Un “pensiero unico” è pensabile?
Non si dovrebbe a priori ritenere nemmeno pensabile l’esistenza di un “pensiero unico” in economia politica. In quanto essa è costitutiva – con la sociologia e le scienze politiche (e in qualche misura la storia, l’antropologia e il diritto) – del cuore delle scienze sociali che si è istituzionalizzato nelle sue formazioni e ricerche a partire dal XIX secolo, l’economia è uno di quei domini dove il confronto dei referenti teorici è inerente al lavoro del ricercatore8. Rimane sempre al fondo un conflitto irriducibile tra posizioni avverse inconciliabili, conflitto da intendersi come il motore propulsivo stesso che permette alla disciplina di svilupparsi e di trovare il proprio senso solamente nella contraddizione. Non più del sociologo o il politologo, l’economista non può svincolarsi dall’influenza che ha sulla sua pratica l’ideologia, né allontanarsi da una soggettività che rinvia il suo giudizio alla Weltanschauung e ai riferimenti filosofici che gli sono più o meno consciamente propri. Persona particolare, integrato in un gruppo di persone particolari, è costretto a non poter rivendicare se non una universalità e una verità relative, sempre opposte ad altre concezioni particolari concorrenti. Il suo universalismo nasconde dunque una particolarità (etnocentrica per esempio) – oppressiva nel senso che il rappresentante di una corrente che detiene il potere sociale tende a trovare “naturale” lo stato delle cose che gli è favorevole -, allo stesso modo in cui la sua scienza maschera un’ideologia mistificatrice nel senso in cui nega alla verità scientifica la sua natura profondamente storica. Questa co-presenza dell’ideologia e della scienza lascia d’altronde la sua impronta perfino nell’indeterminazione dell’economia politica a delineare quello che in effetti costituisce l’oggetto della sua analisi, tanto si rivela potente, come ha sottolineato Walras9, l’influenza delle implicazioni politiche che sottende. Da tutto ciò discende l’impossibilità irreversibile di identificare nella disciplina un “nocciolo assiomatico” (concettuale, metodologico, teorico) che formi un corpus comune alle differenti scuole di pensiero e che spinga la ricerca in maniera spontanea ed omogenea. L’aumento delle conoscenze economiche non può realizzarsi se non intorno a paradigmi distinti, esclusivi gli uni degli altri (benché possano dare luogo ad alcuni tentativi di sintesi). Secondo noi, la spaccatura più profonda localizzabile in seno alla “comunità scientifica” (fittizia) degli economisti separa, in ultima analisi, partigiani e avversari del capitalismo, quelli che per una ragione o per l’altra si fermano davanti alla critica del suo ordine sociale che credono non modificabile e quelli che si impegnano nella sua critica radicale rifiutando l’idea della regolazione di un “capitalismo dal volto umano”. Da lì si percepisce quello che distingue irrimediabilmente l’economia politica, e con essa le altre scienze sociali, dalle scienze dette “dure”: come la matematica (dove si disegna una certa unità fra discipline in comunicazione sempre più diretta al di là degli antagonismi tradizionali) e la fisica (la quale, malgrado l’assenza di una teoria unificata delle forze, offre a tutti i ricercatori una matrice di equazioni di base). Le scienze della materia o naturali (chimica, biologia…) possono progredire a partire da un cuore teorico sicuro in maniera cumulativa e (in un senso speciale) trascendente, per allargamento e approfondimento successivi del loro sapere – più che per il rifiuto definitivo delle teorie precedenti. Ma anche in queste discipline, dove un enunciato può essere massicciamente riconosciuto come giusto e essere l’oggetto di un accordo tra specialisti, l’esistenza di un pensiero unico è del tutto incerta, se non inconcepibile. Nelle scienze fisiche per esempio, rimangono delle polemiche la cui soluzione è aperta e non definitivamente stabilita, perché rinviano a dei punti di vista epistemologici, e infine a dibattiti intellettuali più larghi, situati al di qua della fisica, sia nel campo della metafisica10. In economia politica, non più che in qualunque altra scienza dunque, l’idea di un pensiero unico non è nemmeno pensabile. Non potrà trattarsi nella disciplina economica che di pensieri dominanti, fossero anche egemonici, ma sempre concorrenti e contingenti.
3. Che cos’è il cosiddetto “pensiero unico”? Rimane il fatto che la figura di un “pensiero unico”, dai contorni economici, è denunciata, mediaticamente, da alcuni11. Prolungando una discussione sull’“economic correctness” e ingaggiando una polemica con i paladini di un capitalismo naturale e di un’alternanza politica senza alternativa economica, Ramonet fustigava a metà degli anni novanta questa “traduzione in termini ideologici a pretesa universale degli interessi di un insieme di forze economiche, in particolare quelle del capitale internazionale”12, che soffoca il “ragionamento ribelle” e instaura un “regime totalitario” (analogo “alla doxa stalinista degli anni ’50” si affrettò ad aggiungere Halimi). Questa denuncia fu appoggiata da parecchie autorità intellettuali, fra cui Bourdieu, e altri, fra i quali un piccolo numero di economisti riuniti intorno a un “Appello per uscire dal pensiero unico” ed entrare nella “resistenza ideologica”. Tutto il paradosso – e per noi l’interesse di questa agitazione mediatica – viene in realtà dal fatto che non solamente quest’espressione (il summenzionato “pensiero unico”) “è fiorita” ma anche dal fatto che il suo successo ha di gran lunga superato le ambizioni dei suoi iniziatori, al punto di diventare uno dei temi ricorrenti dei discorsi di quelli che essa intendeva precisamente condannare. Così si infilarono confortevolmente in questa “critica”, “giornalisti di mercato” e altri ejusdem farinae (messi in riga durante la guerra del Golfo e appena ravvedutisi dalla loro condanna dei movimenti sociali del 1995), la quasi totalità della classe politica nazionale (di destra come di “sinistra”), e perfino alcuni dei più eminenti rappresentanti delle forze dominanti del sistema mondiale: Greenspan, presidente della Federal Reserve degli Stati Uniti, il quale ha messo in guardia i mercati contro “la loro esuberante irrazionalità”, Stiglitz, economista in capo della Banca Mondiale, che intendeva “regolare i flussi finanziari”, o lo speculatore e dirigente del gruppo finanziario Soros, che nutriva la speranza che fosse ancora possibile “salvare il capitalismo dal neoliberismo”. Il pensiero unico neoliberista si è dunque facilmente fuso con quello dei suoi “avversari”. Ma non per l’effetto, per quanto tremendamente efficace, della sua forza centripeta ma piuttosto perché questi attacchi lasciavano intatto l’essenziale: la perpetuazione del sistema mondiale capitalista, al di qua del perfezionamento delle sue forme, la permanenza dell’egemonia statunitense, al di qua della riorganizzazione delle sue forze. Dato che queste condanne del pensiero unico sono sempre state quelle di un antineoliberismo, mai quelle di un anticapitalismo – allora, di queste due critiche, solamente la seconda appartiene pienamente al progetto socialista. Così, censurando nell’analisi tutti i riferimenti teorici allo sfruttamento e alle classi, all’appropriazione sociale dei mezzi di produzione, alla costruzione di una società autenticamente democratica, alla disconnessione e allo sviluppo autocentrato, alla lotta contro l’imperialismo… (sono poi così superate oggigiorno?13), non si svuota allo stesso tempo il dibattito di qualunque possibilità di elaborare delle proposte di ridefinizione delle regole di accesso al mercato (per esempio della dislocazione delle regole del WTO e dei privilegi degli oligopoli), di riforma dei sistemi monetari e finanziari (per esempio la messa in discussione delle funzioni e senza dubbio anche dell’esistenza stessa del FMI e della Banca Mondiale, per mettere fine alla dominazione delle operazioni speculative, per orientare gli investimenti verso le attività produttive per favorire la stabilizzazione regionale dei cambi), della messa in opera di una fiscalità di portata mondiale (al di là di una tassa Tobin, per esempio tramite la tassazione delle rendite legate allo sfruttamento delle risorse naturali), di una trasformazione democratica dell’ONU (con la costituzione di un organismo capace di conciliare le esigenze dell’universalismo con i diritti sociopolitici degli individui e dei popoli)…14? È chiudendo queste prospettive, che sono quelle di un superamento del capitalismo mondiale e di una transizione al socialismo mondiale, che ci si impedisce di definire i criteri che permettono di tracciare la frontiera tra il dentro e il fuori di questo pensiero unico e che ci si condanna a fare delle realtà di ieri, oggi scomparse (Welfare State in occidente [“capitalismo nazionalsociale”], statalismo dispotico dell’Est [“capitalismo senza capitalisti”], sviluppo nazionalborghese nel Terzo Mondo [“capitalismo periferico”], le utopie capitaliste di domani.
4. Il pensiero unico ha una storia?
In queste condizioni, il pensiero unico non potrebbe essere compreso se non come pensiero unico del capitalismo, ossia quello che Marx e Engels qualificavano come “ideologia dominante della classe dominante”15. Se non possiamo sostenere, secondo loro, e dopo di loro secondo Althusser, che questo pensiero non ha una storia (“propria”)16, ci è tuttavia possibile decifrare una storia dei pensieri unici del capitalismo17 che si sono succeduti – dopo che la scienza economica si era resa autonoma e si era istituzionalizzata in uno spazio-tempo preciso: nel XIX secolo e al centro del sistema mondiale Europa Occidentale / America del Nord. Dovremo dunque individuare l’evoluzione del contenuto di classe di questi pensieri successivi, fino all’attuale dominio della finanza sul capitalismo mondiale. Questa storia cominciò con il pensiero unico borghese che ha avuto luogo nel XIX secolo, l’ideologia “classica” del liberismo, quella dei piccoli proprietari attaccati ai principi della preponderanza dei mercati (auto-regolati) e della libera concorrenza (anti-monopoli), impegnati in una rivoluzione industriale dove gli interventi dello Stato giocano già un ruolo cruciale nella formazione della “società di mercato”, il laissez-faire e l’accumulazione primitiva del capitale. Questo pensiero della “civiltà borghese” seppe diventare quello dei “diritti dell’uomo” nei discorsi, accettando la colonizzazione europea e il razzismo bianco in atto. La storia dei pensieri unici è proseguita con un “liberismo monopolistico”, dalla fine del XIX alla seconda guerra mondiale, generato dalle trasformazioni del capitalismo mediante una fusione banca-industria fortemente appoggiata da uno Stato che aveva completato la sua integrazione nazionale e che aveva considerevolmente aumentato le proprie spese. Questo pensiero unico seppe perfezionare la democrazia borghese sulla base di blocchi politici di classe, tramite l’alleanza del capitale con le classi medie e/o aristocratiche che si trasformò in un dato momento in fascismo (o in uno dei suoi sottoprodotti), laddove la classe operaia conquistata dal comunismo minacciava direttamente la sua egemonia: rivoluzione spartakista in Germania, movimento operaio in Italia, repubblica in Spagna, Fronte popolare in Francia. A partire dal 1945 e fino all’inizio degli anni ’70, il pensiero unico del capitalismo si trasformò, sotto le pressioni congiunte delle vittorie militari dell’Armata Rossa, delle lotte sindacali e partigiane del proletariato occidentale e dei successi dei movimenti popolari periferici anticolonialisti, in “liberismo nazional-sociale”. Questo pensiero, cementato al nord intorno al compromesso keynesiano, seppe perfettamente conciliare progresso sociale intra-muros e guerre coloniali genocide, sostegno criminale diretto alle dittature neofasciste e appoggio statale sistematico alle strategie brutalmente imperialiste delle compagnie multinazionali occidentali all’esterno18. La fine della decade degli anni ’60 ha segnato, come si sa, l’entrata in crisi del sistema capitalista nei paesi del centro, individuabile soprattutto nel declino dei tassi di profitto. Questa crisi si è generalizzata negli anni ’70 con l’oscillazione dell’insieme del sistema nel caos monetario e finanziario internazionale, la disoccupazione di massa e l’esplosione delle disuguaglianze. I fondamenti del Welfare State occidentale (e la progressione di pari passo del salario e della produttività), che per tre decenni avevano dato prova della loro efficacia assicurando lo sviluppo del dopoguerra, diventavano inefficaci. La congiunzione della rimessa in discussione del modello di regolazione del capitalismo al Nord (confrontato con la stagflazione degli anni ’70), e del fallimento dei piani di sviluppo delle borghesie nazionali al Sud (messa in evidenza dalla crisi del debito degli anni ’80) e la disgregazione del blocco sovietico a Est (conclusasi nei primi anni ’90), provocò una modifica molto profonda del rapporto di forza capitale-lavoro su scala mondiale. È solamente in questo nuovo contesto globale di perdita di forza delle posizioni conquistate dai lavoratori e dai popoli della periferia seguite alle vittorie sul fascismo e sul colonialismo, e del conseguente riorientamento delle politiche economiche destinate a gestire la crisi dell’espansione del capitale e a consolidare il ritorno al potere della finanza, che è possibile la comprensione del dispiegamento globalizzato dell’offensiva neoliberista.
5. Il nuovo pensiero borghese neoliberista del capitalismo I dogmi neoliberisti sono noti. A livello nazionale si tratta di: i) adottare una strategia antistatalista aggressiva, che si traduce nelle privatizzazioni delle imprese pubbliche (ossia la deformazione della struttura di proprietà del capitale a vantaggio del settore privato) e la riduzione delle spese di bilancio (associata allo smantellamento della protezione sociale) e ii) di imporre il rigore salariale, consentito dalla cancellazione delle “rigidità sindacali”, come perno di una disinflazione (“competitiva” nella versione francese) che abbia priorità su qualunque altra considerazione (ossia una distribuzione del valore aggiunto favorevole al capitale e il mantenimento di tassi di interesse reali elevati). A livello internazionale mirano: i) a perpetuare la supremazia del dollaro sul sistema monetario internazionale (con l’adozione di cambi flessibili da cui il suo contrappeso europeo di una moneta unica che sottometta alla sua legge tutta la politica economica) e ii) a promuovere il libero scambio (con l’abbattimento delle barriere protezionistiche e la liberalizzazione dei trasferimenti di capitali). La normalizzazione planetaria di questa strategia globale di “deregulation” dei mercati – da concepire come una “ri-regolazione” di questi ultimi da parte dell’unico capitale dominante a livello mondiale – dipende dalle funzioni del complesso formato dalle organizzazioni internazionali (FMI, Banca Mondiale, WTO) e dalle istanze monetarie e finanziarie locali (banche centrali “indipendenti”, ministeri delle finanze) – l’intero dispositivo è fino ad oggi sottoposto all’egemonia degli Stati Uniti, la cui componente militare garantisce in ultima analisi, per mezzo della guerra se ce n’è bisogno, il funzionamento del sistema mondiale capitalista. Le politiche neoliberiste, condotte sotto l’egida della finanza, cercano in questo modo, come abbiamo detto, di gestire la crisi dell’espansione del capitale. Questa gestione capitalista della crisi consiste, di fronte all’insufficienza delle possibilità di investimenti convenienti per i profitti generati dallo sfruttamento capitalista, nell’allargare gli sbocchi per l’eccedenza dei capitali flottanti al fine di evitare che perdano valore. Benché esse non siano riuscite, dopo tre decenni, a far uscire il sistema dalla crisi, queste politiche sono razionali dal punto di vista del capitale: esse gli offrono, in dei mercati di capitali liberalizzati, l’opportunità di una fuga in avanti degli investimenti finanziari speculativi, estremamente convenienti, e assicurano la continuità dei trasferimenti di surplus dal Sud verso il Nord, grazie alle strategie di gestione del debito (ossia di rimborso degli interessi) e ai programmi di aggiustamento strutturale, imposti unilateralmente ai paesi poveri da istituzioni internazionali sotto il controllo nordamericano. Ma la scelta di questa gestione del sistema, lo ripetiamo, fa delle vittime, numerose – che forse un giorno bisognerà imparare a contare in unità fisiche (numero di morti) e a localizzare nello spazio (essenzialmente alla periferia di un sistema mondiale all’interno del quale la circolazione di tutte le merci è “libera” salvo una – “merce” molto particolare -: il lavoro). L’offensiva recente dell’ideologia neoliberista non è dunque altro che il prodotto intellettuale derivato dalle grandi trasformazioni registratesi nell’ordine conflittuale dei rapporti sociali su scala mondiale. Essa non deve nulla al trionfo, illusorio, della dottrina razionale dei neoliberali sugli argomenti irrazionali dei loro avversari socialisti nello spazio aereo dello spirito o nella sfera eterea delle idee: è la risultante dell’evoluzione di un rapporto di forza sul terreno reale della produzione che è brutalmente e massicciamente scivolato a vantaggio del capitale – e in particolare della sua nuova porzione egemonica: la finanza19. Resta il fatto, tuttavia, che attualmente la supremazia dei valori filosofici e delle preferenze politiche si manifesta in stretta alleanza con la predominanza sulla teoria economica, quasi senza rivali dall’inizio degli anni ’80 della corrente neoclassica, la cui pretesa di scientificità è andata a rinforzare il discorso del nuovo pensiero unico borghese del capitalismo.
6. Un pensiero che si inventa la sua storia Per imporsi come sistema di rappresentazione referenziale e razionale, il nuovo pensiero unico borghese del capitalismo ha ancora bisogno di impegnarsi in una riscrittura della propria storia, che presenterà come l’unica lettura possibile della successione di idee e dottrine, l’unica storia del pensiero. Per fare questo, genealogisti ed epistemologi della corrente dominante si incaricano di inventare per la teoria neoclassica e per la filosofia neoliberista (troppe) prestigiose filiazioni: la prima si iscrive in maniera artificiale e accomodante nella stirpe dell’opera dei classici, che essa andrebbe in qualche modo a prolungare logicamente e a superare20; la seconda ricondotta alle dottrine elaborate dai teorici liberali del XVIII e XIX secolo21. Questa ricostruzione della storia del pensiero economico e filosofico si effettua con un movimento di inversione: delle rotture fondamentali nella teoria sono presentate come continuità; delle continuità teoriche forti sono date come rotture. Così, laddove un’analisi critica approfondita rivela delle regressioni scientifiche nella storia dei pensieri unici borghesi del capitalismo, un racconto storico-mitico costruito ideologicamente, farà apparire dei progressi. Al mainstream non resta che sottolineare, a supporto delle sue pretese, per lui vitali, di scientificità e di universalità, la ricchezza delle sue “nuove teorie” quando la ricerca economica di cui controlla istituzionalmente la produzione non fornisce più, secondo il parere stesso dei suoi rappresentanti più famosi, il minimo risultato innovativo significativo22. La corrente neoclassica ha dunque preso l’abitudine di presentarsi come l’unica erede diretta dei classici. Ora, le rotture che è stata costretta ad operare rispetto a questi ultimi – rotture che gli sviluppi marxiani (distruttori-creatori), parenti prossimi dei lavori classici, rendono assolutamente necessarie – sono state decisive per il percorso che avrebbe preso in seguito la scienza economica moderna. Queste fratture epistemologiche, che gli autori ortodossi si sforzano di risolvere al punto di farne retroattivamente delle crisi di crescita della loro teoria, si riscontrano a livello metodologico (con l’individualismo metodologico scompare in seno al pensiero borghese qualunque visione socio-storica del capitalismo, bloccando così qualunque ricorso alle analisi concepite in termini di classi sociali e di tendenze di lungo periodo), teorico (per l’ancoraggio all’utilità, che cala la realtà sociale su una collezione di homines oeconomici, il ponte tra la teoria del valore e quella dello sfruttamento si interrompe, e al tempo stesso anche un certo rapporto tra l’economia e la politica) e concettuale (con la sostituzione di un equilibrio a corto termine per aggiustamento dei prezzi con un equilibrio di lungo periodo per aggiustamento delle quantità, la riflessione sulla crisi e sui cicli risulta compromesso). Questo ribaltamento delle rotture in continuità (dai classici ai neoclassici) e delle continuità in rotture (tra i classici e Marx) permette di conseguenza di sostenere un continuum ideologico tra “armonia universale” delle teorie (storiche e sociali) dei classici e “equilibrio ottimo” dei teoremi (a-storici e a-sociali) dei neoclassici per un continuum teorico. Ossia, come far comunicare gli uni e gli altri in una visione apologetica unificata del capitalismo. L’effetto di camera obscura è talvolta visibile “a occhio nudo” tanto la distorsione degli scritti classici è grossolana e la manipolazione sommaria23. Ma può mobilitare più sottigliezza, come nel caso (l’abbiamo mostrato altrove24) della “nuova teoria” neoclassica della crescita. Affinché l’efficacia del pensiero unico funzioni al meglio, queste inversioni-invenzioni devono anche operare “sul piano filosofico”. La filosofia che soggiace ai lavori dei neoliberisti (o ultraliberisti) contemporanei è dunque il più delle volte situata nel prolungamento diretto di quella dei liberali del XVIII-XIX secolo. Von Hayek e Friedman in particolare, le cui posizioni (individualiste, anti-stataliste, monetariste…) sono situate sullo sfondo delle politiche economiche condotte da due decenni – nel contesto delle trasformazioni sociali che abbiamo ricordato – sono così considerati come gli eredi diretti dei Turgot e Smith, Bentham e Ricardo, con i quali naturalmente condividono tutto, per una stessa comunanza di spirito, la scelta della “libertà” come criterio etico ultimo. Un semplice prefisso sarebbe sufficiente a dividere le loro visioni di quello che è il “liberismo”? D’altra parte Friedman non dichiara che “in quanto liberisti, noi [ossia fintanto che “noi” perseguiamo l’opera dei liberisti…] prendiamo la libertà dell’individuo come fine ultimo permanente per giudicare le istituzioni sociali”25? Questo vorrebbe dire omettere che il diritto naturale degli uni (Hume, Smith, Bentham…) non ha mai innalzato “la libertà dell’individuo” allo stato di criterio primario, e dissimulare la profonda alterazione che i “nuovi” liberisti hanno introdotto nella teoria degli antichi. Di fatto le nuove generazioni neoliberiste si caratterizzano per un eclettismo assai poco rigoroso nella determinazione dei loro criteri filosofici di giudizio26. Questo meticoloso lavoro di ricostruzione della storia del pensiero, destinato ad assumere, aldilà delle differenze tra queste diverse ideologie borghesi, proprio l’unità ideologica tra tutti i partigiani del capitalismo, è ancora all’opera quando si tratta per questi ultimi di prendere posizione a proposito del coinvolgimento dello Stato nell’allocazione delle risorse. È allora ai Turgot e agli Smith “ non interventisti” che si farà appello per puntellare le argomentazioni anti-stataliste contemporanee – perfino in materia di educazione27. Bisognerebbe riconoscere a questo punto le similitudini esistenti tra questo lavoro di inversione effettuato sulla storia delle idee e un’impresa di fondo molto più vasta, che va sempre di pari passo con quest’ultima, di invenzione della storia dei fatti (della storia universale), intrapresa da molto tempo dagli autori borghesi28. Bernal mostra per esempio come, delle due versioni della storia greca che si sono confrontate, una (il “modello ariano”) che presenta la Grecia antica come essenzialmente europea, l’altra (il “modello antico”) come una civiltà situata all’incrocio delle aree africana (egiziana) e asiatica (semita), nata da una mescolanza feconda fra le culture del Mediterraneo orientale, è il primo modello che è stato imposto negli insegnamenti e nel quale il senso comune di fatto tende a credere. Ora, l’autore ha dimostrato come questo modello ariano è stato creato di sana pianta nel corso della prima metà del XIX secolo coloniale, e in seguito radicalizzato nell’epoca imperialista, in particolar modo durante l’ondata di antisemitismo degli anni 1890-1920, nella sua negazione del fatto reale (attestato dagli autori greci dell’epoca classica) delle colonizzazioni extra-europee, e nel suo riconoscimento del contributo unico alla civilizzazione degli Elleni di lingua indo-europea e di origine nordica rispetto ai popoli dell’Egeo “pre-ellenici”29. In maniera analoga, Diop aveva già ricordato che l’identità nera dell’antico Egitto era “per tutti gli autori anteriori alle falsificazioni grottesche e stizzite della moderna egittologia, e contemporanei degli antici Egizi (…) un fatto assolutamente evidente, cioè sotto gli occhi e che quindi era superfluo dimostrare” – mentre esige oggi da parte nostra uno sforzo per distaccarsi dalla pesantezza ideologica che ci fa di riflesso “tagliare” l’Egitto dal continente africano30. Quello che vale per i fatti storici più remoti continua a maggior ragione ad essere valido per i tempi contemporanei per i quali la pregnanza dell’ideologia dominante, generatrice di mitologia e di mistificazione, è totale31. Il nostro proposito non è di denunciare una macchinazione orchestrata dal cinismo di ideologi di professione, le cui costruzioni in economia non sarebbero che uno degli ingranaggi, ma piuttosto di enunciare le distorsioni introdotte e ripetute in modo compiacente nella storia delle idee e dei fatti (per inversioni, invenzioni, omissioni…), sistematicamente orientati a vantaggio delle forze dominanti del sistema mondiale capitalista. 7. L’impossibilità di costituirsi come scienza contro la storia Per quanto riguarda in modo specifico l’economia, la diffusione dei pensieri unici borghesi del capitalismo ha evidentemente guadagnato in efficacia con la sua mutazione progressiva da “economia politica” (XVIII secolo) in “economia pura” (XX secolo) – il punto di svolta è stato senza dubbio la costruzione dell’”economia politica pura” walrasiana (XIX secolo). Man mano che si staccava dalla filosofia e dal diritto e che si separavano da essa la sociologia (imperniata sulla società civile) e le scienze politiche (che trattano dello Stato), la disciplina affermava, nel suo movimento di istituzionalizzazione, e nella sua ricerca di scientificità, una vocazione apertamente nomotetica e anti-idiografica. Nell’assegnarsi per compito di destituire i metodi storici e olistici a vantaggio del soggettivismo e dell’atomismo dell’individualismo metodologico (“il nostro Robinson” [Bastiat], “individuo isolato” [Jewson], “affetto da miopia su un’isola deserta” [Menger], “nella sua capanna isolata in mezzo alla foresta vergine” [Böhm-Bawerk], “Robinson Crusoe” [Barro])32, i neoclassici hanno potuto non solamente sostenere che il comportamento economico non era che il riflesso di una psicologia individualista universale – piuttosto che di istituzioni socialmente costituite, “astrazioni popolari e pseudo-entità collettive” (von Hayek) – ma ancora affermare il carattere naturale dei principi del laissez-faire e, più in generale, dei fondamenti stessi del sistema capitalista – fra cui evidentemente “il riconoscimento integrale della proprietà privata dei mezzi di produzione” contro “l’antilogica, l’antiscienza, l’antipensiero” che è il marxismo (von Mises). I neoclassici sono ora lanciati alla conquista di soggetti considerati tradizionalmente come appartenenti alla sociologia (economia della famiglia), della scienza politica (scuola del Public Choice) o della storia (cliometria), a partire da un modello analitico standard e su un metodo di discorso che esclude ogni pensiero discorsivo – il formalismo matematico, che non è peraltro che un linguaggio fra gli altri in economia. Il fatto è che la matematica costituisce un dominio dove, come aveva presentito Gauss e più tardi il gruppo di Bourbaki, l’unificazione del cammino della disciplina è relativamente forte e ha come massimo dell’autonomia il suo sollevamento dal reale (a fortiori con rispetto al tempo storico)33, dove la storia del pensiero sembra quella della progressione per astrazione e l’unica determinazione reciproca dei suoi concetti (“orientati da una dialettica interna delle nozioni”), per dirla con Cavaillès34, dove la scienza sembra raggiungere una certa purezza. Come avrebbero potuto i teorici neoclassici sfuggire alla tentazione – loro che hanno sui fisici la superiorità di aver realizzato la prodezza di aver identificato la particella elementare unica (l’homo oeconomicus) e la forza fondamentale unica (la massimizzazione vincolata) – di appropriarsi un po’ del prestigio di quella scienza matematica per stabilire le loro leggi, “vere” in qualunque tempo e in qualunque luogo? I risultati non potevano che essere catastrofici: con uno spiacevole salto mortale, i teorici neoclassici (dei quali la stragrande maggioranza non ha ricevuto un’autentica formazione matematica), che si sforzavano di sviluppare una conoscenza “obiettiva” della realtà sociale, si sono rituffati in quello che cercavano di sfuggire: la speculazione. Il risultato è una disciplina economica apparentemente apolitica35 ma in realtà dominata da una corrente egemonica dogmatica, che la fa tendere, nel migliore dei casi, verso una “ideologia scientifica” (nel senso che dà a questo termine Canguilhem in Idéologie et rationalité), nel peggiore, verso una “fantascienza economica” (come Althusser ha potuto parlare di una “ scienza fanta-politica… il cui ruolo antisociale è evidente”). Il termine “pensiero unico” è stato dunque scelto dalle forze attualmente dominanti del capitalismo per denominare la propria ideologia. Il pensiero borghese del capitalismo che riesce a imporsi è quello che risponde nella maniera più appropriata ai bisogni storici immediati della dinamica di quest’ultimo. Questo pensiero unico 1) articola una teoria economica (neoclassica) con pretesa di scientificità e una filosofia politica (neoliberista) a vocazione universale per edificare un processo “societario” e “culturale” totale; 2) incorpora sussumendola e sormontando le sue contraddizioni qualunque tesi esterna e/o critica come una delle componenti della sua unità; 3) funziona all’unanimità “persecutiva”36 tramite il gioco di una necessaria libertà di pensiero pluralista e democratico (in senso borghese) e di apparati accademici e mediatici autoritariamente normalizzati; 4) esclude dai processi decisionali economici e politici fondamentali le masse, per mezzo della polarizzazione del sapere e la tecnicizzazione dei compiti; 5) deriva da un rapporto di forze nella vita reale tra il capitale e il lavoro su scala mondiale, traducendo l’accesso della finanza all’egemonia; 6) si appoggia sull’egemonia statunitense, minacciata ma tuttora effettiva, a base di monopoli (tra cui quello, regolatore in ultima istanza, delle forze armate); 7) viene a legittimare con una garanzia etica e come a “naturalizzare” la pratica del capitale permettendogli di durare aldilà del fallimento della sua gestione; 8) chiarisce la dinamica del capitale, preservando quello che c’è di essenziale, amministrando quello che c’è di accessorio con il ritorno a politiche neoliberiste; 9) fa corpo con la forma dello Stato (unico su scala nazionale, embrionale sul piano mondiale), che gli conferisce autorità e autonomia, apportando a quest’ultimo la conferma della sua universalità e l’apparenza di un consenso37; 10) produce l’illusione che la lotta si limiti al campo delle idee e al quadro delle istituzioni accademiche dove “le armi della critica” fanno dimenticare “la critica delle armi”38.
Note
* Ricercatore del CNRS e prof. all’Università di Parigi 1 Panthéon-Sorbonne.
1 PNUD, Rapport sur le développement humain, Economica, 1992, pp. 39-40 (popolazione classificata per paese).
2 Banca mondiale, Rapport sur le développement dans le monde, 1999, resp. pp. 213 (en PPA) e 131.
3 M. Beaud, Le Basculement du monde, La Découverte, 1997, pp.167-170 (ripreso da Banca mondiale, 1996).
4 Queste cifre sono certamente esagerate: sottostimano le disuguaglianze, prescindendo dagli scarti intra-nazionali dei redditi, dalla proprietà dei mezzi di produzione, dalle differenze secondo il sesso.
5 Per una discussione analitica del concetto di polarizzazione, si legga: R. Herrera “Les Théories du système mondial capitaliste” in J. Bidet e E. Kouvélakis, Dictionnaire Marx 2000, PUF, in corso di pubblicazione.
6 Banca mondiale, Rapport sur le développement dans le monde, 1997, p. 237
7 S. Milano, La Lutte contre la pauvreté, Problèmes politiques et sociaux, no 751, 1995, pp. 26-27
8 Si veda il Rapporto della Commissione Gulbenkian: Ouvrir les sciences sociales, Descartes & Cie, 1996.
9 “Quello che ha sedotto gli economisti in questa definizione [quella data da J.B Say, per il quale “ le ricchezze si formano, si distribuiscono e si consumano se non da sole, almeno in una maniera in qualche modo indipendente dalla volontà dell’uomo”], è precisamente questo colore esclusivo di scienza naturale che dà a tutta l’economia politica. Questo punto di vista, in effetti, li aiutava singolarmente nella loro lotta contro i socialisti. Qualunque piano di organizzazione della proprietà era da parte loro rifiutato a priori e, per così dire, senza discussioni…” (L. Walras, Eléments d’économie politique pure, in Oeuvres économiques complètes, tomo (, Economica, 1988, p.30).
10 Pensiamo per esempio alla trattazione del concetto di infinito del tutto differente che ne fanno la filosofia (dopo lo scontro frontale dei “paradossi” di Zenone di Elea e dei “paralogismi” della fisica aristotelica) e la matematica (dalla scoperta concomitante del calcolo differenziale da parte di Leibniz e Newton, fino all’invenzione dei transfiniti da parte di Cantor.
11 Leggere: L’Homme et la Société, “Pensée unique “ et pensées critiques”, J.P.Garnier e L.Portis ed., N°. 135, L’Harmattan, 2000/1 e H. ben Hammouda, Les Pensées uniques en économie, L’Harmattan, 1997.
12 I. Ramonet, “La Pensée unique”, Le Monde diplomatique, gennaio 1995.
13 Per chi non vede più il semaforo del comunismo: A. Badiou, D’un Désastre obscur, L’Aube, 1998.
14 S. Amin e R. Herrera, “Le Sud dans le système mondial en transformation”, conférence de l’Association Internationale des Economistes d’Amérique latine et de la Caraïbe, La Havane, gennaio 2000.
15 Rileggere qui quello che la “critica roditrice dei topi” ha lasciato del vecchio manoscritto dei due giovani personaggi (L’Idéologie allemande, Editios sociales, pp. 44-45).
16 L. Althusser, Sur la Reproduction, Actuel Marx, PUF, p. 209.
17 S. Amin, Critique de l’air du temps, L’Harmattan, pp. 27-46.
18 Questi appoggi sono anche sovranazionali. La Banca Mondiale ha pienamente raggiunto il suo sviluppo dopo il 1968 e la presidenza di McNamara – il quale si era già personalmente occupato di sviluppo in Vietnam (prima di presentare le proprie scuse [solamente al popolo americano] per gli “errori commessi”).
19 La conversione brutale e completa della socialdemocrazia al neoliberismo (che ha avuto in Francia l’effetto di trasformare la convivenza da eccezione in regola sotto la V Rebubblica) ha mantenuto questa illusione.
20 Assieme a Marx, noi chiamiamo “classici” gli economisti “scientifici”, secondo Petty e Boisguilbert.
21 Per “liberali”, intendiamo i pensatori della “società liberale”; Hume, Smith, Turgot…
22 Per esempio: E. Malinvaud, “Perché gli economisti non fanno più scoperte”, Revue d’économie politique, Vol 106, n° 6, 1996, pp. 929-943.
23 Un esempio tipico è fornito da Jevons, che attribuisce la paternità del valore-utilità a Ricardo (La Théorie de l’économie politique, Giard & Brière, 1909, pp. 239-241). Il recupero della legge dei vantaggi comparativi dello stesso Ricardo da parte dei neoclassici apologetici del libero scambio è un altro esempio.
24 R. Herrera, “Elementi per una critica della ‘nuova teoria’ neoclassica della crescita”, dattiloscritto, CNRS (UMR 8595), maggio 2000.
25 M. Friedman, Capitalism and Freedom, The University of Chicago Press, 1982, p. 12
26 Von Hayek è esemplare in questa oscillazione che lo fa senza sosta esitare fra diversi criteri e abbandonare, a piacimento nella sua retorica, l’argomento fondato sul “massimo della libertà” per ripiegare altrettanto su quello (unico) scelto dai detentori del diritto naturale – della “conformità alla giustizia” secondo Turgot -, sia su quello (unico) adottato dagli utilitaristi – del “più grande benessere per il maggior numero” secondo Smith – (The Consitution of Liberty, Henley-Routledge & Kegan Paul, 1976, pp. 125 e 309)
27 A questo proposito, secondo Friedman, l’intervento dello Stato aldilà dei servizi educativi spontaneamente offerti dal mercato “non è necessario” e conduce anche a un sistema “molto peggiore di quello che si sarebbe sviluppato se la cooperazione [il mercato] avesse continuato a giocare un ruolo crescente” (Free to Chose, Penguin Books, 1986, p.197). Per il lettore che fosse tentato di pensare che questa posizione non può trovare eco tra chi prende decisioni politiche, lo invitiamo a consultare l’ultimo 1999 World Bank Report, dedicato al sapere (“c’è bisogno di incoraggiare lo sviluppo dell’educazione (…) il miglior modo di procedere è di sostenere l’azione del settore privato in questo campo [dato che] la scuola privata fornisce spesso un’educazione migliore a costi minori”, pp. 44-61. Questa tesi non può tuttavia essere in alcun modo dedotta dai liberisti classici: né da uno Smith, cosciente dell’esigenza di rendere compatibili l’esercizio della cittadinanza e il funzionamento del capitalismo, né da un J.S. Mill, che si confrontava ancora più direttamente alla crescita delle rivendicazioni della classe operaia. Essa presenta al contrario delle somiglianze con quello che dice Bastiat: “Si parla molto, dopo la Repubblica, di istruzione gratuita. È il Comunismo applicato a una branca dell’attività umana. L’istruzione è gratuita! E non è solamente l’istruzione gratuita che bisognerebbe chiedere allo Stato, ma il cibo gratuito, ecc. Ma andiamo! L’alimentazione non è ancora più necessaria? Stiamo in guardia. Il popolo ci è quasi arrivato.Vittime di una parola, abbiamo fatto un passo verso il Comunismo; quale ragione avremmo di non farne un secondo, poi un terzo, fino a che qualunque libertà, qualunque proprietà, qualunque giustizia non vi siano passate? Primo vivere, deinde philosophari, dirà il popolo e in verità non so cosa potremmo rispondergli” (F. Bastiat, Harmonies économiques, in Oeuvres complètes, tomo 6, Guillaumin & Cie, 1864, p.295).
28 Tanto che è vero, come nota I. Wallerstein, che “la storia del passato lontano dipende sempre dagli avvenimenti del passato prossimo”, perché, contrariamente ai nostri schemi logico-deduttivi, è “il presente [che] determina il passato e non viceversa”(Impenser la science sociale, PUF, 1997, pp.151-152).
29 M. Bernal avanza: “Se si dimostra che ho ragione di sperare che si demolisca il Modello Ariano, bisognerà ripensare non solamente le basi della “civiltà occidentale”, ma anche riconoscere l’influenza del razzismo, dello “sciovinismo continentale”, nella nostra storiografia. Il Modello Antico [era] assolutamente intollerabile agli occhi degli ideologi razzisti del XVIII e XIX secolo [come lo era l’idea] che la Grecia, in cui essi vedevano la quintessenza dell’Europa, e che incarnava la purezza dell’infanzia europea, avesse potuto essere il risultato di una mescolanza di Europei autoctoni e di colonizzatori africani e semiti. Bisognava dunque (…) rimpiazzarlo con qualcosa di più sopportabile” (Black Athena, PUF, p.24).
30 C.A. Diop, Civilisation ou barbarie, Présence africaine, 1981 (p.9). È sulla base di questa tesi di una “origine nera della civiltà egitto-nubiana” che l’autore era giunto (per risvegliare “la memoria dell’umanità che lo schiavismo dei neri aveva reso smemorata rispetto al passato di questo popolo”) a risalire fino alla “origine africana e negroide dell’umanità e della civilizzazione” e a ritracciare “il contributo del pensiero nero alla civiltà occidentale nelle scienze,nelle lettere e nelle arti” e “la formazione degli Stati africani [dopo il declino dell’Egitto] su tutto il continente e la continuità dei legami storico-culturali fino all’alba dei tempi moderni” (Nazioni nere e cultura, Présence africaine, 1979, 1979, pp.5-6.
31 S. Kennedy e N. Chomsky hanno saputo con chiarezza rivelare le omissioni della storia (interna per il primo, esterna per il secondo) degli Stati Uniti. Per quel che ci riguarda, la storia collaborazionista, colonialista e neoimperialista della Francia resta ancora da scrivere…
32 “Naturalmente, noi supporremo che le scelte di Robinson siano governate dalla ricerca del suo interesse individuale (…) e adottiamo d’acchito il postulato del comportamento ottimale, centrale in economia” (R.J. Barro, La Macroéconomie, Colin, p.10).
33 Non sembra in effetti che, soprattutto dopo l’emergere delle geometrie non-euclidee (alle quali sono legati i nomi di Bolyai, Lobatchevski e Riemann) che “matematica e realtà sono quasi completamente indipendenti, e i loro contatti più misteriosi che mai”? (J. Dieudonné, in A. Dahan-Dalmedico et J. Peiffer, Une Histoire des mathématiques, Seuil, 1986, p.159).
34 Questa “dialettica” non sarebbe totalmente riducibile all’interpretazione marxista che fa nascere il pensiero dalle condizioni storiche (F.Engels, Anti-Dühring, Editions sociales, p. 69). “Io credo che noi prendiamo dappertutto il necessario.Necessarie le connessioni dei matematici, necessarie perfino le tappe della scienza matematica, necessaria anche questa lotta che conduciamo”, scrive J.Cavaillès, quanto spinozista in questo caso (G. Canguilhem, Vie et mort de Jean Cavaillès, Allia, 1996 p. 29)
35 L’affermazione che “gli economisti devono essere dei matematici a meno di non essere scientifici” non ha impedito a Jevons di confondere analisi normativa e positiva: “la concezione teorica del mercato perfetto è più o meno realizzata in pratica”; né di trasudare razzismo “è evidente che questioni di questo tipo dipendono molto dal carattere della razza. Un uomo di una razza inferiore, un negro per esempio, teme di più il lavoro…”(La Théorie de l’Economie politique, op. cit., resp. pp. 55, 153 e 263).
36 Per parlare come L. Strauss, La Persécution et l’art d’écrire, Agora, 1989, pp. 55-74.
37 G. Deleuze e F. Guattari, Mille Plateaux, Editions de Minuit, 1980, pp. 464-470.
38 “La vera soluzione pratica di questa fraseologia, l’eliminazione di queste rappresentazioni nella coscienza degli uomini, non sarà realizzata, ricordiamolo, se non da una trasformazione delle circostanze e non da delle deduzioni teoriche” (L’Idéologie allemande, op. cit., p.41. F. von Mises preferiva dire: “Senza dubbio la maggior parte degli uomini sono incapaci di seguire un ragionamento difficile. (…) Solamente le masse, precisamente perché non possono pensare da sole, obbediscono alla direzione di quelle che si chiamano le persone colte. Se si riesce a convincere queste ultime, la partita è vinta…” (Le Socialisme, Librairie de Médicis, 1938, p.11).