Un mio "articolo" di qualche tempo fa. Lo posto per iniziare a mettere qualcosa qui dentro.
A proposito
dell’editoriale "Giovani vite sacrificate dalla fretta" di Mario
Chiodetti, apparso su "la Provincia di Varese" del 15 dicembre 2007. O
del come sia sempre più necessaria una contro informazione efficace in
provincia di varese pena una infinita subalternità ideologicia e di
conseguenza politica.
Su "la provincia di Varese" di sabato 15 dicembre scrive molto Mario Chiodetti a proposito delle morti
sul lavoro, addirittura si esibisce in un editoriale, chissà in base a
quali competenze affidato proprio a lui – un editoriale, voglio solo
ricordarlo, molto spesso esprime la linea di tutto il giornale.
Iniziamo dal titolo: "Giovani vite sacrificate dalla fretta"
Il problema sembra chiaro: la fretta. Viene in mente una vecchia battuta di Benigni. Il problema di Palermo? Il traffico.
Poi Chiodetti puntualizza – e da qui in avanti i virgolettati si riferiranno tutti al suo articolo. In realtà il dolore delle vittime del lavoro è "senza nome", saremmo tutti "impotenti a capire", sgomenti e muti "di fronte alla morte che non da spiegazioni".
Ma forse i morti ormai sono troppi (anche quest’anno siamo abbondantemente oltre quota 1000), bisogna concedere qualcosa. Ci spiega che forse non si tratta di fatalità, ma delle "pecche di un sistema produttivo impazzito", una "quotidianità dei consumi selvaggi e della corsa al superfluo" che nasconde l’esistenza di "persone in lotta con la sopravvivenza", "lotta selvaggia, fatta
di orari massacranti, fatiche disumane, spesso frutto di lavori improvvisati accettati per necessità e
disperazione". Universo questo, dice Chiodetti, abbandonato dal "troppo teorizzare della politica".
E aggiunge alla sua analisi la "paura del domani" che "costringe a rischiare, a trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato", "la necessità di sopravvivenza [che] spinge a buttarsi in imprese
a volte più grandi di noi", "la nostra civiltà […] vittima di tempi frenetici", "l’assenza […] di maestri di lavoro". E ancora, "vite allo sbaraglio", "bruciate in pochi secondi" per "la fretta di terminare il
lavoro e diminuire i costi [che] acceca ogni pudore uccidendo con la persona la sacralità dell’esistenza", "desiderio incoercibile del fare, a ogni costo".
Chiodetti conclude con un’esortazione: "incominciamo a rallentare, per favore."
Io personalmente non posso fare altro che invitare Chiodetti, per la prossima volta, ad astenersi
dallo scrivere.
Le morti sul lavoro non sono un santissimo mistero impossibile da spiegare, che lascia impotenti e muti di fronte alla morte, che non da spiegazioni. Se vogliamo scrivere il temino delle superiori possiamo anche farlo, se vogliamo imitare quei campioni del giornalismo disimpegnato e prezzolato che ormai sono ovunque (mi vengono in mente alcune testate
giornalistiche televisive…) possiamo anche farlo e quindi lasciarci andare a commentini strappalacrime sulla morte incomprensibile e misteriosa. E infatti, come dice l’editorialista diligente, il ragazzo morto schiacciato da una montagna di terra "soltanto un attimo prima sorrideva o se la prendeva con se stesso e col mondo". Certo sorrideva, mentre scavava circondato dalla terra e senza magari nessun tipo di protezione. Certo che sorrideva. E, aggiungo io, magari mentre sorrideva in sottofondo si sentiva una musichetta gioiosa, giusto per terminare di dipingere il quadretto idilliaco.
Chissà, magari sorrideva perché lavorava sottopagato, magari con gli straordinari in nero e in condizioni di insicurezza cronica. O forse digrignava i denti. Non sarebbe uno scenario così alieno per il nostro paese. Magari non se la prendeva con se stesso come si vuole farci immaginare ma con l’azienda che lo sfruttava giorno dopo giorno. E’ notevole come in tutto l’articolo non compaia nemmeno una volta la parola azienda e solo una volta il termine impresa, ma solo per illuminarci
sul fatto che è la necessità di sopravvivere a spingerci in "imprese a volte più grandi di noi".
E’ la necessità di sopravvivere,la paura del domani, la lotta selvaggia per la sopravvivenza ci viene spiegato. Ah si?
Qui non stiamo niente meno che dipingendo la lotta di tutti contro tutti, dove i più forti
sopravvivono. E chi sono i più forti? Chiodetti non ha il coraggio di scriverlo e quindi ripiega – facile facile – sulla naturalizzazione delle caratteristiche assassine della nostra società capitalista: è la civiltà che è vittima di tempi frenetici, è il desiderio incoercibile del fare a
ogni costo! Forse il ragazzo morto lavorava freneticamente, forse era il suo dna incoercibile, forse aveva fretta o forse la fretta era più un’impresa più grande di lui? Esatto! Era proprio un’impresa (e per non confonderci le idee io per impresa intendo insieme di uomini e mezzi organizzati per raggiungere un profitto economico) che lo costringeva, per riprendere e parafrasare alcune parole prima citate, a rischiare, a lottare selvaggiamente per la sopravvivenza come un
animale, a orari di lavoro massacranti e fatiche disumane. Ecco trovato l’assassino. Non parla l’editoriale di Chiodetti esclusivamente del caso del ragazzo di Cairate, anzi si parte da li per sviluppare una riflessione più generale. E questo ciò che voglio fare anche io. Il caso di Cairate
è una questione che dovrà essere valutata nella sua specificità e non sto ovviamente accusando i suoi datori di lavori. Saranno le indagine e i tempi biblici dei processi italiani a chiarire, forse, le responsabilità di ognuno. Ma visto che di questi tempi è facile parlare di responsabilità morale –
anzi di concorso – io voglio qui accusare Chiodetti e tutti quelli come lui di enormi responsabilità politiche e morali per essere i diventati ormai stabilmente i nuovi cani da guardia del sistema
economico dominante: il neo-liberismo. Li accuso di non chiamare le cose col loro nome: di parlare
di fretta e non di capitalismo selvaggio; di parlare di flessibilità e modernizzazione del mercato del lavoro e non di precarietà, lavoro notturno, festivo, in nero, sottopagato; di parlare di responsabilità e merito invece che di smantellamento dello stato sociale e clientelismo sfrenato. E quindi li accuso
di non puntare il dito contro il vero assassino: non la fretta ma l’economia che ha
scavalcato la politica, il sistema economico-finanziario che ormai spadroneggia incontrastato (BCE,
FMI e banca mondiale sono le vere istituzioni che controllano il mondo senza a loro volta essere in
nessuno modo controllabili democraticamente); non la fatalità o l’"incoercibile voglia di fare" (di scavare magari…) ma lo sfruttamento selvaggio e senza più regole attuato da aziende, grandi o piccole, nei confronti dei lavoratori, gli attacchi continui al sindacato (vogliamo parlare di
contrattazione decentrata?), l’aumento dell’insicurezza sociale,della povertà, degli impieghi sotto pagati minacciati
costantemente dalla minaccia di licenziamenti brutali.
Li accuso di non puntare il dito contro gli imprenditori italiani che delocalizzano in Cina o chissà
dove e che poi, magari, lamentandosi della concorrenza straniera, chiedono di abbassare i costi del lavoro e razionalizzare i flussi aziendali (si legge licenziare, si scrive politiche sociali responsabili e coraggiose). Imprenditori che vengono da loro lodati in ogni occasioni, nemmeno fossero illuminati
benefattori dell’umanità che offrono occupazione e stipendio per portare benessere. Li accuso di riproporre ogni anno analisi sugli eccessivi costi della sicurezza che paralizzano le aziende e imprigionano la crescita (di chi?). La loro colpa è di parlare di necessità di riforme strutturali del
mercato del lavoro e dello stato sociale, ergendosi a implacabili difensori del capitale – che d’altronde o garantisce i loro privilegi o li piega e domina a forza di precarietà – e quindi del sistema di sfruttamento sistematico che le aziende mettono in atto nei confronti dei dipendenti, vera e
proprie "risorse umane", miniere di euro da mungere fino all’ultimo e poi magari licenziare in nome del merito e della flessibilità moderna. In sostanza del profitto sempre più slegato da ogni considerazioni sociale. Insomma liberiamo la crescita appunto. O la bestia, come dir si voglia.
Risorse umane, dicevo, da sfruttare e poi licenziare o da lasciare al loro destino quando prendono fuoco o, come dice Chiodetti, "bruciano in pochi secondi". Ma lui aggiunge che bruciano per la fretta e la voglia di ridurre i costi di "nessuno" ("Vite allo sbaraglio […] che nessuno ha tempo di prendere per mano"). Non è "nessuno" il responsabile. E’ il sistema capitalistico in cui si inseriscono con le loro scelte, spiegabili ma mai giustificabili, anche le aziende italiane, anche la Thyssen
Group, anche le Fiat o la Bialetti (giusto per fare due nomi), anche tutte le altre. E’ il "capitalismo o barbarie" sostenuto in primis dai grandi giornali ma anche dai giornali di provincia che, si sa,
vivono non di lettori ma soprattutto di pubblicità e appoggi politici e che quindi devono piegarsi,
gioiosamente o meno, consapevolmente o meno, agli interessi di chi comanda davvero. Il sistema mediatico, il teorico quarto potere che dovrebbe avere funzione di controllo e denuncia, non solo non è autonomo ma è ormai anche manganello nelle mani dei potenti, supino nel riportare
integralmente e in maniera acefala ogni tipo di dichiarazione idiota o settaria (16 novembre, intervista, sempre su la Provincia di Varese, a Vittorio Feltri, noto dipendente di Berlusconi a cui viene affidato il compito di commentare, voce unica sull’argomento e ovviamente imparziale, una
indagine giudiziaria sul suo padrone…) e pronto a zittire, accusare di irrazionalità, passatismo, corporativismo e, se serve, anche a portare nelle aule di tribunale le voci contro corrente che infastidiscono il normale svolgimento delle loro comode e ben pagate vite da scrivania.
Pronti sempre a definire normale, naturale, incoercibile, il
mercantilismo di cose e persone (la legge del mercato come la legge
della gravità universale?); disponibili, mai, a indicare chiaramente
che ogni situazione è frutto di scelte politiche e che ogni scelta
politica ha i propri responsabili e le connesse conseguenze, anche
mortali. Pronti ad alzare polveroni – e a parlare di fretta – quando
proprio inevitabile e a ritornare felici, il giorno dopo, relegando
nell’oblio ogni tragedia e ogni morte, alle care e tanto interessanti
ed sicuramente moltissimo indispensabili trame dei palazzi romani.*
Bene, questi signori con i loro scritti e le loro azioni,
spiegabili ma certo non giustificabili, contribuiscono, nel loro
piccolo, con il loro non vedo non sento non parlo, con il loro sostegno
incondizionato al pensiero unico dettato dai potentati
economici-politici, a gettare, ogni giorno, una manciata di terra sulla
frana che ha ucciso Alessandro Fior, uno che ha "abbandonato la vita"
sul posto di lavoro, vita fra le tante "sacrificate dalla fretta". La
fretta, certo.
*14 dicembre: muore sul lavoro Alessio Fior, 25 anni di Cairate. Schiacciato da una frana
15
dicembre: la provincia riporta la notizia. In prima pagina notizia ed
editoriale:"Giovani vite sacrificate dalla fretta" su cui mi sono
dilungato sopra. Poi più nulla fino a pag. 14, sezione VareseCronache.
Qui ottimi e chiari articoli illustrano la vicenda e abbozzano
un’analisi. Tra la prima pagina e la 14esima di tutto, Berlusconi che
denuncia i giudici che starebbero intimidendo i senatori che lui
cercava di corrompere (
pag.5), il giallo di perugia (pag.6), un’intera pagina dedicata alla
bravata del principe Pierre il "vandalo" (p.9) Evidentemente ognuno ha
le proprie priorità, e sensibilità.
16
dicembre: finalmente un’analisi dettagliata, firmata da Piero Orlando,
delle possibili e probabili cause di ogni morte sul lavoro. Peccato
però serva arrivare a pagina 11 per saperne qualcosa. Il tutto relegato
nella sezione VareseCronache mentre i politici locali discutono sul
mandare a casa la "casta", sull’ordinanza anti-sbandati e sui
fondamentali alberghi da costruire o meno per gli altrettanto
fondamentali mondiali di ciclismo. Ovviamente sul morto e sul problema
della sicurezza sui luoghi di lavoro nulla.
17 dicembre: in prima pagina si torna a parlare del problema della
sicurezza sul lavoro. Editoriale di Francesco Angelini dal titolo: "La
sinistra dalla fabbrica al salotto". La tesi dell’articolo è che la
situazione attuale così ottimamente descritta (i "lavoratori sono
sfruttati, oppressi da turni massacranti ed esposti a discriminazioni e
gravi rischi per la loro incolumità. Qualcuno ci lascia la pelle.")
dipenda dalla sinistra, di centro o estrema che sia, dai
sindacati, dal PD di Veltroni. Tutti si sarebbero dimenticati del
problema delle fabbriche o dei lavoratori e avrebbero sostituito alle
fabbriche i salotti, come appunto indica il titolo. Forse Angelini non
è molto lontano dalla verità ma ecco che arriva il gran finale: "La
destra è orientata su altri blocchi sociali. Tutela il lavoro autonomo
e i dipendenti statali. Ma rimane estranea alla fabbrica." E no! La
destra non rimane estranea alla fabbrica e al lavoro dipendente.
Tutelando gli autonomi e gli imprenditori, nella maniere scriteriata e
criminale in cui è stato fatto in questi anni, nella fabbrica e nelle
piccole aziende artigiane la destra c’è entrata e di molto. Rafforzando
gli strumenti di oppressione che già esistevano e che, a volte, sono
stati creati proprio dalla cosiddetta sinistra, ormai innamorata delle
riforme liberiste del mercato del lavoro (guardatevi il programma di
Veltroni). E si conclude: "Il fatto che le vittime in fabbrica e nei
cantieri aumentino proprio nel momento in cui la sinistra è al governo
conferma tristemente questa tesi". Insomma, per dirla come farebbe il
barbaro e irresponsabile Caruso: la sinistra non guarda e la destra
"ammazza"? Si, ma la colpa è della sinistra. Serve un quinto operaio
morto per riportare il problema nelle prima pagine. E infatti a pag.2
si parla dell’ultimo morto alla Thyssen. Su una cosa però sono tutti
d’accordo. Nei commenti e negli editoriali vengono attaccati tutti
(sinistra, fretta, sistema impazzito e incoercibile, sindacati alienati
dalla fabbrica) ma mai un riferimento minimo alla responsabilità
diretta delle aziende.