di Luiza Samanda Turrini
Per fare un discorso sui suicide bombers
bisogna partire da quello che ci dice il senso comune. Il buon senso,
la lucidità nazional-popolare, quella salda come la roccia.
“Nella loro cultura non c’è rispetto per la vita umana.”
“Sono dei pazzi”
“Puoi fare una cosa del genere solo se prima ti hanno fatto il lavaggio del cervello.”
“E’ tutta colpa dell’Islam.”
In realtà nella cultura musulmana c’è rispetto per la vita esattamente
come “da noi”, mentre il rispetto della vita scende sottozero in
qualsiasi contesto di conflitto bellico. Le coordinate morali di
persone sottoposte al rischio costante di morire sono sicuramente
diverse rispetto a chi vive dove la guerra non c’è.
Nasra Hassan, uno studioso che ha condotto ricerche etnografiche sul campo intervistando aspiranti suicide bombers,
reclutatori e funzionari di Hamas, ha rilevato che nessuno di loro
manifestava segni di depressione o di squilibrio, ma che anzi avevano
solitamente un’intelligenza superiore alla media, una buona educazione,
ed ottime maniere. Due kamikaze sono stati figli di miliardari. Ora
come ora, finiti i tempi di Kohmeini, possiamo affermare che nessuno
degli attentatori subisce una riforma coercitiva del pensiero –
comunemente detta lavaggio del cervello -. Chiaramente il partito
patrocinatore (che sia Hamas, Jihad Islamica, Brigata dei Martiri di Al
Aqsa, o chi per esso) supporta il futuro kamikaze con massicce dosi di
propaganda, ma la decisione di compiere l’atto – almeno per i maschi –
è sempre frutto di una scelta individuale. Come ha affermato
l’islamologo Richard Gramlich, se è vero che la dottrina teologica
islamica presenta delle ambiguità rispetto l’uso legittimo della
violenza in battaglia, è altrettanto vero che sotto l’egida del
cattolicesimo, che dovrebbe basarsi sull’amore e sulla fratellanza,
sono state condotte sanguinose guerre sia intestine che di conquista
(1) . I padri della chiesa, Agostino e Ambrogio in primis, si sono adoperati per dimostrare la dottrina del bellum iustum, per quanto il pacifismo sia un importante costituente del messaggio cristologico (2).
Rispetto alla cultura occidentale, il terrorismo suicida è visto come
la manifestazione più eclatante dell’Alterità, e ora come ora, dopo che
sono crollati il Muro e le Torri, possiamo affermare che l’Alterità è
individuata nell’Umma musulmana. Dopo l’East-Block,
il blocco arabo-islamico. Come tutto ciò che è altro da noi, anche il
terrorismo suicida viene percepito in maniera massiva ed inarticolata,
ed usando la stereotipia come strumento conoscitivo. Un po’ come i
flussi migratori, che vengono misconosciuti nei loro sviluppi e nella
loro storicità. Gli immigrati sono considerati come un’unica massa
identica a se stessa, priva di distinzioni sociali di qualsiasi tipo,
decurtata delle sue narrazioni. Lo stesso vale per il terrorismo
suicida. Le odierne esplosioni nei Territori Occupati, in Israele ed
Iraq hanno una storia ben precisa a monte. Una macro-storia, nonché le
storie individuali dei singoli attentatori.
Tutto ebbe inizio con Kohmeini, il primo capo religioso ad adoperarsi per aggirare la taquyia,
la legge islamica che antepone la salvezza del corpo e della vita in
tempi di crisi. Quando nell’’80 Saddam invase il suo paese, l’imam
sentenziò che quella guerra era un dono del cielo, ma dato che i quadri
dirigenti dell’esercito erano stati epurati e che non c’erano né armi
né munizioni sufficienti, decise di ricorrere alla risorsa di cui
l’Iran era maggiormente ricco: la crescita demografica incontenibile,
ovvero i ragazzini. Quelli erano i tempi dei reclutatori che
setacciavano le scuole, dei campi di addestramento lager, e del mind-fucking.
I mitraglieri irakeni si ritrovarono a fronteggiare le onde offensive
umane, schiere di migliaia di minorenni dagli otto ai quindici anni che
si gettavano urlando verso le loro postazioni, incontro a morte certa,
per aprire la strada ai soldati regolari. Pochi fra loro portavano
armi, ma tutti erano provvisti di una chiave appesa al collo, per
aprire i cancelli del paradiso non appena conseguito il martirio.
Nel mondo arabo nessuno usa la locuzione “terrorismo suicida”, il termine usato è shahadat, martirio. Il suicidio, intihari, è un gesto haram, proibito dalla normativa religiosa, che non ha assolutamente nulla a che spartire con le “sante esplosioni”. Dopo i pasdaran e i giovani del bassige,
durante gli anni Ottanta un altro gruppo religioso sciita si servì dei
martiri, in modo meno massiccio, più capillare, e supportato da un
robusto marketing di propaganda audiovisiva. Erano gli Hetzbollah
libanesi, in guerra contro gli occupanti israeliani e le truppe
americane e francesi. Se i bambini iraniani erano martiri “inermi”, che
morivano “di per sé”, con gli attentati libanesi si apre la stagione
del “martirio predatorio”, in cui la vittima si qualifica anche come
carnefice.
Nell’ ’83 un uomo alla guida di un camion pieno di esplosivo portò a
termine un’operazione di guerriglia spettacolare, schiantandosi contro
il palazzo in cui erano stanziate le truppe americane e francesi, e
provocando 250 morti, fra cui l’intero contingente della CIA in Libano.
Se è vero che il primissimo attentato individuale condotto da un uomo
bomba avvenne nell’81 a Tabriz, ad opera del movimento dei Mojaheddin
e al seguito delle note vicende rivoluzionarie e post-rivoluzionarie in
Iran, possiamo tuttavia affermare che si trattò di un atto isolato e
pionieristico rispetto a quanto avrebbero fatto gli Hetzbollah. Le
modalità martiriali par excellence con cui persero la vita più
di ventimila giovani iraniani erano quelle massificate, collettive ed
ebbre delle onde offensive umane. Tecnicamente, qualora gli obiettivi
non siano civili inermi ma, come nel caso del primo attentato
Hetzbollah, target militari, non si può parlare di terrorismo. Se il
bersaglio è un contingente bellico si tratta di operazioni di
guerriglia (3).
Gli Hetzbollah, per supportare questo tipo di azioni, hanno creato una
vera e propria cultura del martirio. Si sono serviti dei media di
flusso e della loro emittente televisiva, Al Manar Tv, sulla quale
vengono tuttora trasmessi i video con i testamenti dei martiri,
fondamentali per la percezione eroica degli attentatori e per la genesi
del desiderio di emulazione. Il deserto libanese è pieno di enormi
cartelloni pubblicitari, installati nei luoghi in cui ci sono stati i
15 attentati fra l’ ’80 e l’ ’85. Questi cartelloni sono un ibrido fra
la pubblicità, di cui adottano uno dei supporti canonici, e il
monumento commemorativo, infatti recano la foto del martire e le sue
generalità.
A parte questa inconsueta attenzione per gli aspetti comunicativi e
mediatici del loro operato, gli Hetzbollah sono entrati nelle grazie
del popolo libanese offrendo servizi di welfare,
scuole, ospedali, assistenza sociale ai più poveri. La stessa linea
politica è stata poi adottata da Hamas, in Palestina. Il culto del
martirio è un tratto tipico della confessione sciita, che risale
all’epico sacrificio in battaglia di Hussein, il fondatore della Shiat.
Sia gli iraniani che gli Hetzbollah sono sciiti. La Palestina invece è
di prevalenza sunnita. Nel 1992 successe però che i vertici di Hamas
vennero deportati da Rabin in Libano, dove la dirigenza di Hetzbollah
li accolse a braccia aperte, passando loro armi, idee, e strategie
concettuali. Non è un caso che nel 1993 si sia verificato in Palestina
il primo attacco terrorista sferrato da un uomo-bomba. Da allora c’è
stato un incremento numerico di operazioni suicide spaventoso, e il
fenomeno ha inesorabilmente assunto tutti i connotati di una vera e
propria moda di massa. Dal ’93 fino ad arrivare ai giorni nostri ci
sono stati più di 120 attacchi suicidi. Tutte le organizzazioni, anche
quelle laiche come Al Fatah si sono trovate costrette da ragioni di
marketing a costituire brigate militari di martiri, pena la sconfitta
politica da parte degli altri partiti. Il diritto a diventare martire è
stato esteso anche alle donne, nonostante gli iniziali scetticismi da
parte dello sceicco Yassin (l’ultra-fondamentalista fondatore di
Hamas), perplesso perché le attentatrici per compiere la missione
dovevano uscire di casa senza essere accompagnate dal marito o da un
maschio della famiglia.
Molti teorici del terrorismo hanno fatto notare la natura simbolica –
ovvero comunicativa e polisemica – delle operazioni suicide, in
particolare di quelle dirette ai civili, il cui scopo, non essendo
strategico, ha una natura più sottile. Scegliendo volontariamente la
morte, gli attentatori dimostrano di irridere il potere soverchiante
degli israeliani. L’assunto nascosto del potere infatti è costituito
dalla facoltà di togliere la vita, e ciò che essa genera, ovvero paura
e sottomissione. L’atto suicida manda in cortocircuito la logica del
potere. Lo scopo è lo spargimento del terrore nel fronte civile
avversario, perché la paura è una forma di sudditanza mentale, laddove
è impossibile quella logistica. Per chi subisce l’attentato, i suoi
significati coprono tutta l’area semantica della distruzione:
innanzitutto del corpo, che viene danneggiato vita natural durante, da
lesioni agli organi, amputazioni di arti, ustioni su viso e testa. E
poi della psiche, che fatica a superare il trauma, dei nuclei familiari
e dei sodalizi, che vengono troncati dalla morte dei loro membri, della
salute, della fiducia nell’avvenire. E infine degli spazi conosciuti, i
quali vengono sconvolti e assumono significati perturbanti, e della
vita sociale, che si desertifica. La guerra, con i suoi fondali fisici
e psichici, viene così esportata nel cuore della pacifica società del
nemico.
Inoltre la morte sia dell’attentatore che delle sue vittime assume una
valenza sacrificale. Il sangue dei nemici viene versato sulla terra che
essi occupano indebitamente, per purificarla, e il martire con il
proprio sacrificio diventa un eroe. Tutte le grandi narrazioni mitiche,
quelle strutturate sul viaggio dell’eroe, culminano con la sua morte e
resurrezione. Nel terrorismo suicida anche l’ultima funzione eroica
viene adempiuta; dopo l’attentato tutti possono vedere il simulacro del
martire resuscitare virtualmente sugli schermi televisivi, sui quali
viene trasmesso più volte il suo testamento.
Questa resurrezione, oltre ai suddetti connotati mitici, ha anche una
forte valenza sociale. I martiri vengono proiettati nell’iconosfera
della fama, che li “eterna” agli occhi della loro collettività, e
gonfia la loro identità, facendone degli eroi e dei veri e propri divi.
Come per il pantheon divistico occidentale, c’è un’assoluta
democraticità delle candidature. Tutti possono aspirare a diventare
martiri. Non serve essere belli e glamourus,
basta essere determinati e coraggiosi. “Tutto si può dire di questi
uomini, tranne che non fossero coraggiosi.”, ha detto Susan Sontag in
riferimento agli attentatori delle Torri Gemelle. Come il divismo
occidentale, anche lo stardom martiriale del Medio Oriente riprende le
categorie archetipiche, in particolare quella dell’eroe trasformatore,
che con la sua morte innesca un grande cambiamento che rende migliore
la sua comunità d’appartenenza. E in una comunità distrutta dalla
guerra e dall’occupazione, questo richiamo inconscio funziona alla
grande.
In più ci sono i fattori economici. Se in Occidente l’exploitation
commerciale dei divi copre tutte le funzioni connesse al corpo, dalla
cosmesi, all’abbigliamento, ai vizi alcolici e tabagisti, il corpo
dello shahid
(il martire) acquista valore solo in relazione alla sua morte. Dopo
l’attentato la sua famiglia riceve una somma compresa fra i tremila e i
venticinquemila dollari, rette scolastiche abbonate, servizi medici
scontati. D’altra parte anche le icone più grandi del divismo
occidentale hanno un legame privilegiato con la morte. I volti più noti
in assoluto, Marilyn Monroe, James Dean, Che Guevara, Jim Morrison,
Lady Diana, tutti sono morti su un altare sacrificale. Quello del sesso
e della solitudine, della gioventù e della velocità, dell’ideale,
dell’eccesso dionisiaco, dell’eccesso di fama. Anche gli shuhada
si uccidono, fra le altre cose, per diventare famosi. Per andare in tv.
Per finire sui manifesti in giro per il paese. Per diventare
l’argomento numero uno di tutte le conversazioni.
E chiaramente chi finanzia, organizza e patrocina gli attacchi suicidi
ne ha solo da guadagnare. La religione è solo un potente escamotage
simbolico. In realtà il giro di soldi che ci sta sotto è enorme.
Milioni di dollari. I kamikaze sono una forma di pubblicità per i
partiti, che si giocano la propria popolarità su questo terreno. Al
Aqsa Tv, il palinsesto di Hamas, trasmette veri e propri video musicali
sulle sue falangi armate. In uno di questi si sente un inno marziale,
fatto da un coro di voci maschili molto aggressivo, e nel frattempo si
vedono dei guerriglieri con paludamenti mimetici (di cui alcuni
improbabili, tipo una tuta con maniche a pipistrello che partono dalle
caviglie), che fanno percorsi di guerra strisciando sotto matasse di
filo spinato e inginocchiandosi a pregare in mezzo a distese di missili
qassan. E poi dietro si vedono trotterellare bimbetti minuscoli, sui
tre quattro anni, vestiti come loro e armati, che si sforzano di fare
tutto il percorso bene come gli adulti. “I nostri bambini sono assetati
del vostro sangue”, dice la canzone nel frattempo. Ci sono programmi
per bambini con scenografie di colori pastello, in cui un personaggio
vestito da Topolino intervista dei ragazzini tutti sorridenti, con la
faccia sveglia da primi della classe, sui nove-dieci anni. I bambini
dichiarano “che il martirio è una cosa bellissima, che non c’è nulla di
meglio che andare in paradiso.” Che “il martirio è dolce.” E poi “Non
vogliamo questo mondo, vogliamo l’Aldilà.”
(1) «l’Islam (…) nel corso della propria storia s’è dimostrato
normalmente più tollerante di quanto avrebbe dovuto esserlo se avesse
seguito i dettami della sua essenza. Il Cristianesimo d’altra parte è
apparso meno comprensivo di quanto avrebbe dovuto se avesse ottemperato
al comandamento dell’amore insegnato da Gesù.», LEONARDO SACCO, Kamikaze e Shahid, linee guida per una comparazione storico-religiosa, Roma, Bulzoni Editore, 2005, p. 120.
(2) «I primi padri della Chiesa, fra cui Tertulliano e Origene,
asserivano che ai cristiani era fatto divieto di togliere la vita ad
altri uomini, un principio che impediva ai cristiani di servire
nell’esercito romano. I primi cristiani, perciò, erano fondamentalmente
pacifisti. Quando il Cristianesimo balzò allo status di religione di
Stato nel quarto secolo d.C., i capi della Chiesa cominciarono a
rifiutare il pacifismo e ad accettare la dottrina della guerra giusta,
un’idea affermata per primo da Cicerone e sviluppata successivamente da
Agostino e Ambrogio.», MARK JUERGENSMEYER, Terroristi in nome di Dio, la violenza religiosa nel mondo, Bari, Laterza, 2003, p. 26.
(3) «Shiite organization such as Amal resorted to suicide actions
against civilians (terrorism), but the majority of their actions durino
the Lebanon wave were directed against military targets.», LUCA
RICOLFI, Palestinians 1981-2003, in DIEGO GAMBETTA (a cura di), "Making
sense of suicide mission", Oxford Press, New York, 2005, p. 88.